La “Me Economy” applicata al mondo del lavoro indica la sempre maggiore tendenza dei lavoratori nelle loro scelte di carriera a dare priorità all’equilibrio tra lavoro e vita privata, privilegiando flessibilità e autonomia, e ad aspettarsi una maggiore personalizzazione del loro rapporto con l’azienda.
I tre aspetti più ricercati dai candidati sono una settimana lavorativa di quattro giorni (per il 64%), poter scegliere inizio e fine dell’orario di lavoro (45%) e la possibilità di lavorare da casa (35%). Inoltre, il 60% dei lavoratori della Generazione Z (nati tra la metà degli anni Novanta e l’inizio degli anni Dieci) si aspetta che i propri datori di lavoro forniscano percorsi di sviluppo di carriera personalizzati con un orientamento regolare, mentori qualificati e piani di progressione trasparenti e personalizzati in base agli obiettivi personali.
Un fenomeno che interessa anche le donne, con l’85% delle lavoratrici che vuole poter scegliere la modalità di organizzazione del lavoro che più si adatta alle proprie esigenze, e solo il 7% disponibile a un’occupazione a tempo pieno che escluda il remote working.
La ricerca mostra, inoltre, come la Gen Z – di cui entro il 2030 farà parte il 58% dei lavoratori - stia cambiando scelte e aspettative anche dei lavoratori di altre generazioni. Il 93% dei ‘senior’ afferma di essere stato in qualche modo influenzato dai colleghi ventenni su vari ambiti: il confine fra lavoro e vita privata (per il 78% degli intervistati), l’apertura verso nuove tecnologie (76%), il desiderio di successo professionale (76%), una paga equa per il lavoro corrisposto (75%) e il coinvolgimento dei datori di lavoro nelle questioni sociali (71%).
La convivenza di diverse generazioni sui luoghi di lavoro crea anche problemi organizzativi, nell’ambito di un generale invecchiamento e restringimento della forza lavoro nelle economie sviluppate. Da un lato la perdita di conoscenze generazionali da parte dei baby boomer che vanno in pensione, dall’altro gli Zoomer che cercano competenze aggiornate che combinino tecnica e aspetti interpersonali. In mezzo, i lavoratori a metà carriera che devono riqualificarsi per nuovi ruoli. Reskilling mirato e mentorship aiutano a colmare il divario di talenti tra le varie generazioni. I programmi di formazione trasversale possono consentire alla Gen Z e alle risorse più esperte di trasferire le conoscenze istituzionali.
Diventa, poi, sempre più importante e addirittura conveniente per le organizzazioni investire sui temi della diversity & inclusion: la ricerca rileva che le aziende con alti livelli di diversità hanno avuto il 39% in più di probabilità di superare quelle con una minore diversità interna e che i talenti migliori danno sempre maggiore priorità a lavorare in un ambiente inclusivo.
Infine, lo sviluppo tecnologico e dell’intelligenza artificiale sarà un altro trend fondamentale: si apriranno opportunità per svolgere lavori più significativi, ma a condizione di avere le giuste competenze e preparazione. Per le aziende le sfide principali riguardanti l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro saranno formare i lavoratori per sfruttare le potenzialità dell’IA e trovare lavoratori già qualificati. Quasi 3 organizzazioni su 4 (71%) stanno attualmente o attivamente pianificando di utilizzare l’AI conversazionale nel loro processo di reclutamento. La maggioranza dei datori di lavoro (58%) ritiene che l’IA e la VR – Virtual Reality avranno un impatto positivo sull’organico della loro organizzazione nei prossimi due anni.
Attualmente, le donne rappresentano la metà della popolazione attiva a livello mondiale. In soli tre anni dallo scoppio dalla pandemia, i livelli di occupazione femminile sono tornati a quelli pre-Covid, con un’inversione di rotta rispetto alla “Shecession”, che comportò in periodo pandemico l’abbandono dell’ambiente lavorativo per milioni di donne. Dati positivi che si scontrano però con una bassa presenza femminile in posizioni apicali: meno di un terzo dei ruoli dirigenziali e di leadership, infatti, sono rosa.
Una carenza di diversità, dunque, che oltre a limitare il potenziale di crescita delle organizzazioni - le aziende con alti livelli di diversity hanno avuto il 39% di probabilità in più di performare meglio rispetto a quelle con scarsi livelli di DEIB (“Diversity, equity, inclusion, and belonging”) – fatica ancora a essere percepita dai leader delle stesse. Il 68% dei dirigenti, infatti, afferma che la propria azienda offre un ambiente inclusivo, ma soltanto il 36% dei loro lavoratori è d’accordo.
Alla scarsa rappresentanza in ruoli di potere si aggiunge poi un gap di genere nei settori tecnologici e informatici, dove meno di un terzo della workforce mondiale è rappresentato da donne e in Italia la situazione è ancora più grave: nell’ITC le donne sono il 16% (dato Eurostat), e siamo tra gli ultimi paesi in Europa per inclusione femminile in questo settore (la media europea è del 19%). Se si considera, tuttavia, che lo sviluppo tecnologico e dell’intelligenza artificiale è uno dei principali trend a cui guarda il mondo del lavoro, la forza lavoro femminile se priva delle competenze necessarie rischia di rimanere esclusa dalle posizioni attualmente più ricercate e in crescita.
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