Quando muore una persona famosa – famosa non per censo ma perché ha lavorato sodo -, proviamo sgomento e dispiacere. E all’improvviso ci troviamo anche molto curiosi del lato nascosto della sua vita, quello che poi verrà sviscerato nelle biografie che verranno scritte sul personaggio. Di Sergio Marchionne, ci si chiede se il nodo della sua straordinaria carriera e del suo inaudito attaccamento al lavoro non sia da trovarsi nell’essere stato un adolescente quattordicenne che dalla natia Chieti, luogo certamente amichevole e confortevole, si è trovato sbalzato in Canada, nella folta comunità italiana di Toronto, come in una sorta di doppio balzo nel futuro ma anche nel passato: infatti, fino a tutti gli anni Novanta la comunità italiana dell’Ontario era nota per tramandare dialetti e tradizioni da noi ormai sorpassati. Immaginate un quattordicenne tolto agli amici di Chieti, al seguito di genitori molto più avventurosi di tanti giovani nostri contemporanei: la mamma profuga istriana, il papà carabiniere abituato come i militari a girare di sede in sede, e poi via, il salto dall’Abruzzo del ’66, nel pieno del boom economico italiano, fino in Ontario, terra di geli e di venti e di paesaggi sconfinati. Ebbene, quello stranito ragazzino con gli occhiali arriva in terra straniera e ce la fa: si laurea anzitutto in filosofia, spaventando il padre che pensava (e gli diceva): «Tanta fatica per darti un futuro e tu studi filosofia. Finirai a vendere gelati». Ma poi, invece, il giovane Sergio, fattosi una base culturale che gli imprime profondità e capacità di pensare in termini di proiezioni assolute, studia giurisprudenza, e anche economia.
E mostra un’intelligenza e un darsi da fare abnorme persino tra quelle rigide temperature dove non si passa il pomeriggio tra lidi e marine, oppure a cercare il fresco nel parco del Gran Sasso, ma si convive con gente piovuta lì da tutto il mondo, nel grande paese spopolato che per decenni è stato la risorsa di tutti i profughi e i sognatori, il paese fatto di lupi, orsi, salmoni e di stranieri naturalizzati, gente che certo non conosce la dolcezza del vivere di Chieti e dell’Abruzzo mediterraneo, ma pensa solo a essere veloce nel cogliere le occasioni, e fa progetti su larga scala perché cresce in un Paese privo di identità precisa. Di fatto, il Canada più che una nazione è una multinazionale. Così, da quei 14 anni e da quel suo integrarsi in un mondo senza confini di etnie e di sforzi, con la tenacia degli abruzzesi e degli istriani, eccolo questo Marchionne che è diventato famoso, un uomo che ha sacrificato tutto al lavoro, ossia alla costruzione della propria carriera ma anche al lavoro delle decine di migliaia di dipendenti dalle aziende di cui si è occupato.
Il lavoro, solo il lavoro, il suo e quello degli altri, e niente vacanze, niente godersi i soldi pure accumulati copiosamente, niente spenderli, niente suggestioni affettive o erotiche incompatibili con il proprio impegno. Aveva una compagna, Marchionne, una donna che condivideva con lui questa occupazione incessante in FCA; e aveva una ex moglie, di cui, come disse in un’intervista rilasciata alla televisione svizzera vent’anni fa, quando i loro bambini erano ancora piccoli: «L’ho conosciuta che già lavoravo dalle 6 del mattino alle 10 di sera, sempre in aereo su e giù attraverso il mondo. Mia moglie non vuole cambiarmi, sa che sono così». Resta il rimpianto di non sapere cosa Sergio Marchionne avrebbe fatto dopo FCA, come avrebbe speso i suoi ingenti guadagni. Creando una propria azienda e dunque posti di lavoro? Finanziando borse di studio? Investendo risorse sulla formazione dei giovani? Forse i suoi propositi e progetti, che sicuramente un uomo così non aveva l’idea di un futuro di mollezze tra Capri e gli Hamptons, ce li racconterà l’autore della sua futura biografia. Intanto, restano le sue tante frasi leggendarie. La mia preferita: «Diritti? Per accedere ai diritti bisogna anzitutto occuparsi dei propri obblighi».