«Tutto deve cambiare perché nulla cambi» è la frase della sua vita. A ispirarlo è Il Gattopardo, anche se non si ritiene un intellettuale, piuttosto “un uomo a metà tra il sacro e il profano” che ama la cucina, l’arredamento e il silenzio. Specie d’estate, nella sua Capri. E non teme il futuro, a preoccuparlo è la memoria. Perché Michele Pontecorvo, classe 1984, Vicepresidente di Ferrarelle SpA, quarto produttore italiano di acque minerali, desidera lasciare il segno. Per questo investe nella cultura, convinto che non siano solo i numeri a fare grande un’azienda e alla sua Ferrarelle, società con 370 dipendenti dislocati su cinque siti strategici (Milano, Riardo, Darfo Boario Terme, Pontedera e Presenzano), sta regalando un cambiamento epocale: il nuovo stabilimento di produzione di R-Pet, in cui riciclare circa 23 mila tonnellate di Pet all’anno, riducendo l’impatto sull’ambiente e aprendo, al tempo stesso, nuove opportunità di business. Una scommessa che guarda al futuro con la convinzione che produrre voglia dire anzitutto avere rispetto: per il territorio, per le persone, per i valori.
Michele Pontecorvo, dal 2005 Ferrarelle SpA è tornata a essere italiana grazie all’impegno della sua famiglia. In che modo lei sta contribuendo al cambiamento aziendale?
«Abbiamo rilevato Ferrarelle da un gruppo internazionale in cui contavano molto i numeri e abbiamo cercato, fin da subito, di imprimere una svolta culturale, rimettendo al centro le persone. La piattaforma di Corporate Social Responsibility è il cuore di questo processo. Un cambiamento a cui io ho contribuito direttamente e che si declina in svariati modi: dalla creazione di bottiglie con plastica riciclata all’impegno nell’arte e nel sociale. Le riunioni con le nostre reti di vendita, ad esempio, non si tengono più in qualche asettico hotel, ma nelle sedi dei nostri partner istituzionali, come nel foyer del Teatro alla Scala, a Villa Necchi Campiglio, presso la Fondazione Feltrinelli. Ed è straordinario vedere come queste esperienze riescano a generare un’emozione anche nelle persone più inaspettate. Questo, è per me ciò che deve fare un’azienda: portare beneficio a tutti, non solo agli azionisti. Solo così potrà davvero creare valore per il futuro».
Già, il futuro, con le sue automazioni, la robotica, industria 4.0. La rivoluzione in corso è un’opportunità o un rischio?
«Un famoso ideogramma cinese ci ricorda che rischio e opportunità sono la stessa cosa. Personalmente, ritengo che il cambiamento possa essere un’opportunità solo se accompagnato dalle competenze. E non sempre ciò accade. Lo dimostra la difficoltà che abbiamo nel reperire manodopera qualificata per il nuovo impianto di R-Pet a Presenzano. Ciò vuol dire che bisogna ripensare i percorsi di formazione scolastica se non vogliamo che qualcuno resti davvero ai margini di questa Quarta Rivoluzione Industriale. Sono convinto, infatti, che anche le macchine più performanti avranno sempre bisogno degli uomini, ma gli uomini devono essere preparati a poterle gestire. Ed è dovere di ogni Paese e di ogni impresa garantire una possibilità di crescita a tutte le sue persone. Rimanere fermi, altrimenti, significa diventare facilmente sostituibili».
Richard Ford, uno degli scrittori più brillanti della sua generazione che quest’anno riceve il Premio Malaparte, tra i più importanti riconoscimenti letterari rinato proprio grazie all’impegno di Ferrarelle, citando Umberto Eco ha detto: «L’intellettuale è chi crea o scopre nuova conoscenza». È una definizione assimilabile a una mente del cambiamento?
«Non credo che una mente del cambiamento debba essere necessariamente un intellettuale, ciò che conta è che sia aperta al prossimo. Io stesso, del resto, non mi ritengo un intellettuale. Dopo gli studi classici, ho frequentato per un anno l’Università Bocconi, salvo poi spostarmi alla Cattolica per studiare Linguaggi dei Media con indirizzo giornalistico: una laurea molto contemporanea. Sono poi entrato in azienda occupandomi di ufficio stampa, di comunicazione istituzionale, di marketing, facendomi affiancare da bravissimi collaboratori e infine, da un anno e mezzo, sono arrivato alla vicepresidenza, mantenendo una delega nel Cda legata alla comunicazione e alla Csr».
E da uomo di comunicazione, che rapporto ha con i social network?
«Li uso in maniera scanzonata: su Instagram mi piace raccontarmi, ma solo agli amici più stretti. Su Facebook e LinkedIn mi concedo molto di più. Twitter è meno battuto. La verità è che amo molto i miei spazi di vita personale, sono riuscito a trovare un buon equilibrio tra lavoro e privato e intendo mantenerlo. È fatto di momenti da condividere con mia moglie, nell’intimità di casa, in silenzio, a cucinare, a spulciare riviste di arredamento e sistemare la mia libreria. Ho una piccola mania, sa? Mi piace catalogare libri e magazine per colore e dimensione. Lo farò anche con LINC».
Grazie, non vediamo l’ora di essere nei suoi scaffali.Ma dal suo ufficio appare evidente anche un’altra passione.
«Gli amuleti?».
Esattamente.
«Da buon napoletano sono scaramantico e ho tre livelli di amuleti: quelli che non tolgo mai dal polso, dal cornetto d’oro alla manina di Fatima, quelli che porto con me in maniera semipermanente, attaccati al portachiavi e quelli che mi accompagnano quando sono in viaggio. Ben tre sacchetti, tra falli alati dell’abbondanza e acqua di Lourdes. Perché mi divido equamente tra sacro e profano, che non si sa mai. Del resto, anche il nostro santo patrono, San Gennaro, ha una modalità di manifestazione a cavallo tra scaramanzia e fede. E siamo tutti un po’ così: razionalità e passionalità. Due anime sempre in cerca di equilibrio».
E due anime, diverse ma complementari, sono anche quelle che guidano Ferrarelle: lei umanista, suo padre medico. Un mix che funziona?
«L’anima che guida l’azienda è sicuramente la sua, ma non è un uomo solo al comando, anzi. Dialoga molto con le persone. E questa è una dote che condividiamo. Riconosciamo di non avere le competenze tipiche degli uomini d’azienda, così ci circondiamo dei migliori: diamo la vision e ci confrontiamo, ascoltiamo, sappiamo quando è il momento di fare silenzio. È questo che fa funzionare le cose, altrimenti correremmo un rischio comune a molte aziende familiari: l’eccessiva ingerenza dell’imprenditore».
Ma il talento per guidare un’azienda si trasmette di padre in figlio o è una dote naturale?
«Il tema del passaggio generazionale è cruciale: nessuno ti insegna a essere un leader, devi capire da solo se te la senti di prendere le redini e di portare avanti ciò che è stato creato prima di te. Io me lo sono chiesto durante il periodo adolescenziale e mi sono risposto che non sarei mai riuscito a scegliere una vita diversa, non avrei mai potuto rinunciare ai valori su cui si basa tutta la mia esistenza. Parlo di valori umani che riguardano il modo di relazionarsi con gli altri e con se stessi. Dunque, oggi non ho rimpianti rispetto alle scelte fatte. E anche per questo ho una cosa da dire ai ragazzi che si trovano a prendere decisioni importanti per il futuro».
Cosa?
«Non abbiate fretta. Non ascoltate i canti delle sirene: la gavetta è imprescindibile e la buona educazione è la base di tutto. Io sono cresciuto in un’epoca di passaggio, tra le lauree tradizionali in giurisprudenza e quelle più fresche e innovative in comunicazione e design. Ho avuto modo di guardarmi intorno, di carpire il meglio dell’una e dell’altra parte. I ragazzi di oggi crescono pensando che con Instagram si possano fare milioni di euro. Può essere vero in alcuni casi, ma non in tutti. Dunque, fate attenzione. E ricordate: la forma è sostanza. Sapersi presentare correttamente fa la differenza».
E lei, se dovesse presentarsi a un uomo del passato, chi sceglierebbe?
«Potrei citarne diversi: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, visto che Il Gattopardo con il suo “tutto cambia affinché nulla cambi”, è il libro della mia vita, ma mi affascinano molto anche gli architetti visionari alla Gio Ponti. Potendoli incontrare, farei loro una sola domanda: come siete riusciti a lasciare il segno? Questo perché la memoria è l’unica ansia che ho. Non è questione di vanità, ma vorrei riuscire a imprimere un cambiamento vero e a essere ricordato, magari tra 200 anni, in qualche manuale di storia economica per aver cambiato la cultura di Ferrarelle e con essa quella della comunità in cui operiamo».