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Michele Pontecorvo: «Razionalità e passione per lasciare il segno»

Scritto da Redazione di LinC | 20/12/18 23.30

«Tutto deve cambiare perché nulla cambi» è la frase della sua vita. A ispirarlo è Il Gattopardo, anche se non si ritiene un intellettuale, piuttosto “un uomo a metà tra il sacro e il profano” che ama la cucina, l’arredamento e il silenzio. Specie d’estate, nella sua Capri. E non teme il futuro, a preoccuparlo è la memoria. Perché Michele Pontecorvo,  classe 1984, Vicepresidente di Ferrarelle SpA, quarto produttore italiano di acque minerali,  desidera lasciare il segno. Per questo investe nella cultura, convinto che non  siano solo i numeri a fare grande un’azienda e alla sua Ferrarelle, società con 370 dipendenti  dislocati su cinque siti strategici (Milano, Riardo, Darfo Boario Terme, Pontedera  e Presenzano), sta regalando un cambiamento epocale: il nuovo stabilimento di  produzione di R-Pet, in cui riciclare circa 23 mila tonnellate di Pet all’anno, riducendo  l’impatto sull’ambiente e aprendo, al tempo stesso, nuove opportunità di business.  Una scommessa che guarda al futuro con la convinzione che produrre voglia dire anzitutto  avere rispetto: per il territorio, per le persone, per i valori.

Michele Pontecorvo, dal 2005 Ferrarelle SpA è tornata a essere italiana grazie all’impegno  della sua famiglia.  In che modo lei sta contribuendo al cambiamento  aziendale? 

«Abbiamo rilevato Ferrarelle da  un gruppo internazionale in cui  contavano molto i numeri e abbiamo  cercato, fin da subito, di  imprimere una svolta culturale,  rimettendo al centro le persone. La piattaforma di Corporate  Social Responsibility è il cuore di questo processo. Un cambiamento  a cui io ho contribuito  direttamente e che si declina in  svariati modi: dalla creazione di  bottiglie con plastica riciclata all’impegno nell’arte e nel sociale. Le riunioni con le nostre reti  di vendita, ad esempio, non si  tengono più in qualche asettico  hotel, ma nelle sedi dei nostri  partner istituzionali, come nel  foyer del Teatro alla Scala, a Villa  Necchi Campiglio, presso la Fondazione Feltrinelli. Ed è straordinario  vedere come queste  esperienze riescano a generare un’emozione anche nelle persone  più inaspettate. Questo, è per me ciò che deve fare un’azienda:  portare beneficio a tutti, non solo  agli azionisti. Solo così potrà davvero  creare valore per il futuro».

Già, il futuro, con le  sue automazioni, la robotica, industria 4.0. La rivoluzione  in corso è  un’opportunità o  un rischio? 

«Un famoso ideogramma cinese  ci ricorda che rischio e opportunità  sono la stessa cosa. Personalmente, ritengo che  il cambiamento possa essere  un’opportunità solo se accompagnato  dalle competenze. E non sempre ciò accade. Lo dimostra  la difficoltà che abbiamo  nel reperire manodopera qualificata per il nuovo impianto di  R-Pet a Presenzano. Ciò vuol dire che bisogna ripensare i percorsi  di formazione scolastica se non vogliamo che qualcuno resti  davvero ai margini di questa Quarta Rivoluzione Industriale. Sono convinto, infatti,  che anche le macchine più performanti  avranno sempre bisogno degli uomini, ma gli uomini  devono essere preparati a poterle  gestire. Ed è dovere di ogni Paese  e di ogni impresa garantire  una possibilità di crescita a tutte  le sue persone. Rimanere fermi,  altrimenti, significa diventare facilmente  sostituibili».

Richard Ford, uno  degli scrittori più  brillanti della sua  generazione che  quest’anno riceve il Premio Malaparte, tra i più importanti  riconoscimenti  letterari rinato proprio grazie  all’impegno  di Ferrarelle, citando Umberto Eco ha detto: «L’intellettuale è chi  crea o scopre nuova  conoscenza». È una definizione assimilabile a una mente del cambiamento? 

«Non credo che una mente del  cambiamento debba essere necessariamente un intellettuale,  ciò che conta è che sia aperta al prossimo. Io stesso, del resto, non  mi ritengo un intellettuale. Dopo gli studi classici, ho frequentato per un anno l’Università Bocconi,  salvo poi spostarmi alla Cattolica per studiare Linguaggi dei Media con indirizzo giornalistico: una laurea molto contemporanea. Sono poi entrato in azienda occupandomi di ufficio stampa, di comunicazione istituzionale, di marketing,  facendomi affiancare da bravissimi collaboratori e infine, da un anno e mezzo, sono arrivato alla vicepresidenza, mantenendo una delega nel Cda legata alla comunicazione e alla Csr».

E da uomo di comunicazione, che rapporto ha con i social network? 

«Li uso in maniera scanzonata: su Instagram mi piace raccontarmi,  ma solo agli amici più stretti. Su Facebook e LinkedIn mi concedo molto di più. Twitter è meno battuto. La verità è che amo molto i miei spazi di vita personale,  sono riuscito a trovare un buon equilibrio tra lavoro e privato e intendo mantenerlo. È fatto di momenti da condividere con mia  moglie, nell’intimità di casa, in  silenzio, a cucinare, a spulciare riviste di arredamento e sistemare la mia libreria. Ho una piccola mania, sa? Mi piace catalogare libri e magazine per colore e dimensione. Lo farò anche con LINC».

Grazie, non vediamo l’ora di essere nei suoi scaffali.Ma dal suo ufficio appare evidente anche  un’altra passione. 

«Gli amuleti?».

Esattamente. 

«Da buon napoletano sono  scaramantico e ho tre livelli di  amuleti: quelli che non tolgo  mai dal polso, dal cornetto d’oro  alla manina di Fatima, quelli che  porto con me in maniera semipermanente,  attaccati al portachiavi  e quelli che mi accompagnano  quando sono in viaggio. Ben tre sacchetti, tra falli alati dell’abbondanza  e acqua di Lourdes. Perché  mi divido equamente tra sacro  e profano, che non si sa mai. Del resto, anche il nostro santo patrono,  San Gennaro, ha una modalità  di manifestazione a cavallo tra scaramanzia e fede. E siamo tutti un po’ così: razionalità e passionalità. Due anime sempre in cerca di equilibrio».

E due anime, diverse ma complementari, sono anche quelle  che guidano Ferrarelle: lei umanista, suo  padre medico. Un mix che funziona? 

«L’anima che guida l’azienda  è sicuramente la sua, ma non è  un uomo solo al comando, anzi. Dialoga molto con le persone. E questa è una dote che condividiamo. Riconosciamo di non  avere le competenze tipiche degli uomini d’azienda, così ci  circondiamo dei migliori: diamo la vision e ci confrontiamo, ascoltiamo, sappiamo quando  è il momento di fare silenzio. È questo che fa funzionare le cose, altrimenti correremmo un  rischio comune a molte aziende  familiari: l’eccessiva ingerenza  dell’imprenditore».

Ma il talento per  guidare un’azienda  si trasmette di  padre in figlio o è  una dote naturale? 

Michele Pontecorvo

«Il tema del passaggio generazionale  è cruciale: nessuno ti insegna a essere un leader, devi capire da solo se te la senti di  prendere le redini e di portare  avanti ciò che è stato creato prima di te. Io me lo sono chiesto durante il periodo adolescenziale e mi sono risposto che non  sarei mai riuscito a scegliere una vita diversa, non avrei mai potuto  rinunciare ai valori su cui si basa tutta la mia esistenza. Parlo di valori umani che riguardano il modo di relazionarsi con gli altri e con se stessi. Dunque, oggi non ho rimpianti rispetto alle scelte  fatte. E anche per questo ho una cosa da dire ai ragazzi che  si trovano a prendere decisioni  importanti per il futuro».

Cosa? 

«Non abbiate fretta. Non ascoltate i canti delle sirene: la gavetta è imprescindibile e la  buona educazione è la base di tutto. Io sono cresciuto in un’epoca di passaggio, tra le lauree  tradizionali in giurisprudenza e quelle più fresche e innovative in comunicazione e design. Ho avuto modo di guardarmi intorno, di carpire il meglio dell’una e dell’altra parte. I ragazzi di oggi crescono pensando che con Instagram si possano fare milioni di euro. Può essere vero in alcuni casi, ma non in tutti. Dunque, fate attenzione. E ricordate: la forma è sostanza. Sapersi presentare correttamente fa la differenza».

E lei, se dovesse presentarsi a un uomo del passato, chi sceglierebbe? 

«Potrei citarne diversi: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, visto che Il Gattopardo con il suo “tutto cambia affinché nulla cambi”, è il libro della mia vita, ma mi affascinano molto anche gli architetti visionari alla Gio Ponti. Potendoli incontrare, farei loro una sola domanda: come siete riusciti a lasciare il segno? Questo perché la memoria è l’unica ansia che ho. Non è questione di vanità, ma vorrei riuscire a imprimere un cambiamento vero e a essere ricordato, magari tra 200 anni, in qualche manuale di storia economica per aver cambiato la cultura di Ferrarelle e con essa quella della comunità in cui operiamo».