Donald Trump che, ospite del “Tonight Show”, si lascia spettinare i capelli dal comico Jimmy Fallon per dimostrare di essere munito di autoironia. Elizabeth Warren, senatrice democratica ed economista del Massachusetts, ex sostenitrice di Bernie Sanders e Hillary Clinton, che decide di annunciare la sua partecipazione alle elezioni americane del 2020 dal giardino di casa, con tanto di marito e cane al seguito. Theresa May che, nel tentativo di convincere i propri colleghi di partito a sottoscrivere l’accordo con la Commissione Europea sull’intricata questione Brexit, entra a passo di danza nella sala congressi in cui si sta svolgendo l’assemblea dei conservatori britannici. Il leader nordcoreano Kim Jong-un che si esibisce in un’incredibile break dance, nonostante il non trascurabile sovrappeso. Emmanuel Macron che fa la dab dance con Pogba durante la visita della nazionale francese di calcio all’Eliseo. Matteo Salvini che si immerge in lunghissimi bagni di folla e di selfie, ma anche che indossa le divise della polizia e che si auto-ritrae mentre mangia pane e Nutella. Beppe Grillo che attraversa a nuoto lo Stretto di Messina in occasione delle elezioni regionali siciliane del 2012. Luigi Di Maio che si fa scattare foto mentre è intento a scambiarsi coccole e baci appassionati sul prato di Villa Borghese con la sua nuova fidanzata. Il premier Giuseppe Conte che suona la chitarra all’interno dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù la vigilia di Natale. Matteo Renzi che all’ultima Leopolda intervista (anziché essere intervistato) Paolo Bonolis su un palco che, per dimensioni e scenografia, si rivela degno di uno show televisivo da prime time. Maria Elena Boschi che si fa fotografare da Oliviero Toscani per la copertina di “Maxim”. Giorgia Meloni, neo-mamma, che celebra in tv la nascita di sua figlia. Prima di tutti loro Silvio Berlusconi che canta con il mitico Apicella e che racconta barzellette durante le convention di partito. E persino Mario Monti che si presenta con il cagnolino in mano dalla Bignardi per sottoporsi a un’intervista televisiva non proprio compatibile con il suo stile austero.
L’elenco è lungo. Altri esempi potrebbero essere fatti. Cosa lega tra loro tutti questi episodi? Ipotizziamo una risposta: la volontà di trasformare la politica da dimensione elitaria e relegabile in spazi narrativi circoscritti ad esperienza popolare spendibile in un ambito molto più ampio. Un ambito cross e trans-mediale. E cioè sul presupposto che sia più importante “apparire uno del popolo” piuttosto che esserlo veramente. Che sia necessario ridurre le distanze tra elettorato attivo ed elettorato passivo: obiettivo rispetto al quale un ruolo determinante viene svolto dall’insieme di fattori esogeni e al tempo stesso endogeni. Cominciamo con i primi, i fattori esogeni. A rendere la politica sempre più pop ha contribuito certamente il nuovo ecosistema comunicativo. La convivenza tra vecchi e nuovi media ha messo la politica in condizione di enfatizzare gli intrecci con la comunicazione e con il marketing in base alla consapevolezza che, accanto al consenso abilitante, quello che i leader politici chiedono agli elettori nel momento in cui si candidano, di grande rilevanza è diventato anche il consenso confermante, quel consenso cioè indispensabile affinché essi siano messi nella condizione, quasi fossero dei veri e propri brand, di alimentare senza soluzioni di continuità la conversazione con i propri sostenitori e quindi con i cittadini-elettori.
Prima la televisione, con la sua spiccata propensione a contaminare informazione e intrattenimento fino a dar vita a un terzo genere come l’infotainment, poi il web e i social network hanno modificato in modo radicale la sfera pubblica, impegnata nell’oscillazione continua tra polarizzazione e dialogo. Molti studiosi di politica e di comunicazione sono stati persino indotti a confrontarsi con nuove definizioni della parola “democrazia”, soprattutto per il primato sempre più evidente registrato dalla società disintermediata e immediata, liquida e individualizzata. Modelli spesso costruiti in nome dell’esigenza, avvertita come inderogabile, dell’allargamento della partecipazione democratica e della rappresentanza politica. Tra i fattori endogeni, oltre alla crisi dei partiti di massa protagonisti nel ventesimo secolo e oltre all’entrata in scena della fase post-ideologica, vanno ricordati fenomeni come la leaderizzazione e la spettacolarizzazione della politica.
Si tratta di due facce della stessa medaglia. Molti gli effetti prodotti finora da questa situazione. Anche in questo caso l’elenco è lungo. Si va dalla supremazia del pubblico sull’opinione pubblica e dal dominio del valore dell’interesse su quello dell’importanza (con quest’ultimo fatto che spesso coincide solo con la diffusione dell’interesse), al ruolo sempre più pervasivo dei sondaggi d’opinione in grado ormai di assumere le sembianze della realtà. Non solo. Si va dal ricorso a un linguaggio verbale diretto e anti-convenzionale, che sovente si mostra incapace di restituire il senso della complessità delle questioni affrontate nel discorso pubblico, alla grande attenzione riservata alla dimensione emozionale, tanto da aver coniato recentemente l’espressione “emocracy”. E come non ricordare il condizionamento degli algoritmi su opzioni di consumo di senso ed opinioni, l’erosione dei confini esistenti tra reale e virtuale, tra verosimile e vero, tra costruzione e ricostruzione, tra politica e cultura popolare e infine la sovrapposizione tra senso comune e buon senso. Il processo è irreversibile. L’identità della “politica pop” si trasforma da dato a compito. Con tutto ciò che ne consegue. Specie nell’era dei populismi.