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Quando l’abito fa employer branding

Scritto da Redazione di LinC | 24/06/19 23.26

«Put your heads up! Clap your hands! Pump up the volume». Frasi che avrete ascoltato mille volte dal vivo in una discoteca, in un locale o per radio e tv. Nulla di strano. Ma se le pensiamo pronunciate dall’amministratore delegato di una delle più grandi banche al mondo, allora sì che qualcosa suona, è proprio il caso di dirlo, un po’ bizzarro. Tutto vero, nessuna fake news. Il soggetto in questione è David Michael Solomon, pardon, DJ D-Sol, ovvero l’amministratore delegato di Goldman Sachs, una delle più note e autorevoli banche d’affari al mondo.Quindi non vi stupirà se mentre scrivo questo articolo, per ispirarmi, in sottofondo ho messo “Don’t stop”, brano un po’ remix, un po’ dance, un po’ pop, scritto e suonato proprio da Solomon e che ha pure ottenuto un discreto successo.

“Non smettere mai di pensare al futuro”, dice il ritornello. Esattamente quello che sembra avere in testa il signor Goldman Sachs che, in coerenza con questa sua doppia vita da banchiere-deejay, ha deciso di consentire ai dipendenti della banca di indossare look più casual. Addio giacca e cravatta, lunga vita a T-shirt, felpe e sneakers. Indumenti che solo fino a poco tempo fa sarebbe stato impossibile indossare nei serissimi corridoi delle banche.Solo una posa? Solo un modo per far parlare di sé? Non esattamente. Certamente una rivoluzione, soprattutto per l’azienda in questione, ma certamente non dettata da un colpo di testa. Del resto nessuno rischierebbe di mettere a repentaglio il nome e il blasone di una banca che gestisce patrimoni per centinaia di miliardi di dollari con 150 anni di storia.La sortita del nostro si inserisce a pieno titolo in quella che è una delle ultime frontiere del brand management, ovvero l’employer branding. Che cosa è? È una particolare strategia di marketing volta al miglioramento del valore di marca attraverso la reputazione aziendale, ottenuta dalla qualità delle condizioni di lavoro, dalla capacità di coltivare i talenti, mantenerli all’interno dell’azienda e attrarne di nuovi.

Ma le parole sono importanti, leggiamo cosa dice la nota di GS: «La nostra banca ha una clientela differenziata, vogliamo che ognuno di loro si senta a proprio agio con noi. Vestitevi in modo appropriato». Chiaro no? Non si dice vestitevi casual ma adeguatevi alla vostra clientela. E qui, come mi disse saggiamente, tanto tempo fa, un incravattatissimo banchiere italiano con la passione per le MV Agusta, entra in campo l’unica variabile che occorre saper dominare se si vogliono interpretare gli eventi e trarne vantaggio: la demografia. I grandi di Wall Street sanno innanzitutto di avere una clientela piuttosto âgée. Ma sanno anche che oggi nel mondo, a livello aggregato, la popolazione più ricca e alto spendente del pianeta è costituita dai Millennials, ovvero i nati dopo il 1980. Infine sanno ancora meglio che già oggi il 75% degli impiegati a Wall Street è a sua volta Millennials o addirittura post Millennials.

Non serve aggiungere molto altro per capire che dietro un “Ad che fa il deejay” sembrerebbe esserci una precisa strategia di riposizionamento, con un triplo intento: dare una immagine di azienda smart e moderna, attrarre i migliori talenti e ammiccare a una vasta platea di nuovi e “ricchi” clienti. Questo non è ovviamente un caso isolato, né nuovo. Più di dieci anni fa l’Eni, italianissima azienda petrolifera, diede vita a un’iniziativa che proponeva ai dipendenti, per tutto il periodo estivo, di adottare uno stile di abbigliamento più informale in ufficio. L’obiettivo era chiaro: da una parte in quella estate torrida si voleva dimostrare la sensibilità della prima azienda energetica italiana e
tra le prime al mondo verso le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, non costretti alla calda etichetta del “giacca&cravatta”; dall’altra v’era la volontà anche di mostrarsi all’esterno come azienda virtuosa e coerente, che proponesse un uso più razionale dei condizionatori d’aria, con minori consumi di energia.Questi sono solo due esempi ma ne potremmo citare altri: il CEO di una nota azienda di giocattoli danese tempo fa ha aperto un suo blog interno per dialogare coi dipendenti. Dick Costolo, ex CEO di Twitter, ha la passione della comicità e ha pure partecipato al “Saturday Night Live”, non nascondendo questa sua verve comica.

Tutti esempi che danno concretezza a diversi studi che mettono in relazione le condizioni di vita sul lavoro, la soddisfazione dei lavoratori e la percezione che l’esterno ha di quell’azienda in termini di attrattività.Una ricerca elaborata dalla Industree Communication Hub che tra le altre cose si occupa proprio di internal branding ha cercato di mappare gli strumenti e i canali più utilizzati dalle aziende in fase di recruiting, su un campione di quattromila professionisti dell’HR in Italia, Francia e Belgio. Ebbene, ne è emerso come il 50% delle aziende rappresentate dal campione avesse già avviato progetti di internal branding; non solo, ma ne è uscito che ambiente di lavoro (63%), innovazione (57%) e equilibrio vita-lavoro (44%) sono i fattori che rendono un’azienda attrattiva quando si cercano nuovi talenti. Quindi, adottare politiche volte a migliorare l’immagine dell’azienda, che stimoli i lavoratori e di conseguenza la percezione che dall’esterno si ha di quella azienda e dei suoi dipendenti, sembra sempre di più un fattore determinante per accaparrarsi i migliori talenti e ottenere in questo mondo un significativo vantaggio competitivo. E il nostro Solomon sembra tenere perfettamente il tempo: «I leader oggi devono essere più vulnerabili, devono mettersi in gioco. Le persone vogliono lavorare in realtà aperte, diverse. Occorre avere passioni personali che si mescolino con quelle professionali. Diversamente è più difficile trovare le energie per fare il proprio lavoro». Se DJ D-Sol mettesse in musica le sue parole, con un giusto bit, potrebbe farne una hit. That’s it.