Esiste qualcosa come una letteratura dell’ozio? Sembrerebbe possibile rispondere di sì, considerati due testi in particolare usciti negli ultimi cinque anni ed entrambi scritti da scrittrici donne: Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfeg, e Stagno di Claire-Louise Bennet. Ma se la prima sceglieva di eclissarsi nel sonno per una sorta di guarigione, la seconda liberamente decide di lasciare la città, abbandonare le migliaia di parole scritte in un’incompiuta tesi di dottorato, trasferirsi in campagna, Irlanda occidentale, margini del continente, uno stagno poco più in là.
Stagno è un libro particolare, raro, eccentrico. Adatto a quest’epoca per contrasto, sembra provenire da altri secoli e altri orizzonti: venti capitoli o racconti, slegati e insieme legati tra di loro, in cui la protagonista del felice isolamento racconta la quotidianità tra piaceri, capricci e piccole nevrosi di una vita in solitudine. Stagno è anche un libro difficile da categorizzare, e come ha scritto Meghan O’Rourke sul New York Times, potrebbe questo essere uno dei suoi successi. Alcuni capitoli sono lunghi soltanto poche frasi, come “Saltato in padella”: «Ho appena gettato la cena nella spazzatura. Sapevo già mentre la preparavo che l’avrei gettata, allora ci ho messo tutte le cose che non voglio mai più vedere», altre sono disquisizioni che riescono a perdersi per pagine e pagine su come cercare e sostituire delle manopole di un vecchio forno a gas.
L’isolamento raccontato dall’anonima narratrice di Stagno è esperimento senza una fine in vista, è piacere e non costrizione. Il libro si legge come un taccuino impressionistico di appunti e riflessioni, la scrittura è umoristica e lo stile subisce frenate e rapide accelerazioni a seconda dell’umore apparente della protagonista. La più interessante prova della scrittura di Bennett è la capacità di concentrarsi e ragionare per pagine e pagine su piccoli gesti e oggetti della vita quotidiana. «Gli oggetti», ha scritto Andrew Gallix sul Guardian, «si rivestono di un alone luminoso, quasi spirituale».
È un romanzo che, per paradosso, diventa importante proprio per la sua scelta di isolamento in un’epoca caratterizzata da frenesie e social network e attenzione parziale. È un placido inno all’essere outsider nel vero senso della parola. Come ha detto lei stessa in un’intervista alla Paris Review: «Certe situazioni normali della vita, come matrimonio, lavoro, procreazione, a certe persone non accadono automaticamente. Ed è un bene che la letteratura racconti le vite di questi cosiddetti outsider, perché in realtà quando passi così tanto tempo da solo è un po’ come se partissi dal niente, con le tue regole, ogni singolo giorno, ed è una cosa che spaventa, che ti annulla, ma che a volte è esaltante».
Il diritto alla disconnessione
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