Mi è rimasta impressa una frase di un importante cacciatore di teste con cui tempo fa stavo chiacchierando: «Una cosa che si guarda sempre prima di suggerire ad un cliente un candidato è la sua personalità per come emerge dalla sua vita “social”. Se non ha profili è un soggetto da valutare con attenzione; se li ha, la sua attività social deve essere analizzata».
È chiaro, quindi, che il processo di selezione sia notevolmente cambiato con l’avvento dei social: non più ricerche cui si risponde inviando un CV per restare in attesa del colloquio, ma ricerche fatte anche direttamente utilizzando i social (ad esempio LinkedIn) per vedere quali sono i possibili candidati in base alle attitudini emergenti dal profilo e dagli endorsement ricevuti o per una verifica post colloquio.
Insomma, è impossibile affrontare il mondo del lavoro senza che la nostra immagine social, fatta dalla somma di quello che vogliamo raccontare di noi stessi su Youtube, Facebook, Twitter, Instagram o LinkedIn (per citare quelli più noti e diffusi), abbia un riflesso sulle opportunità di lavoro o sulla gestione della relazione con i nostri colleghi o il datore di lavoro. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, basti pensare ai recenti fatti di cronaca relativi a “post” di Facebook, creati fuori dall’orario di lavoro per comunicare idee personali, che nessuna incidenza diretta hanno con il corretto svolgimento dell’attività lavorativa, ma ritenuti inopportuni dal datore di lavoro al punto da portare al rischio di licenziamento.
La cosa singolare è che la nostra immagine social si sovrappone senza coincidere con la nostra immagine reale, fatta invece di ciò che la cerchia più ristretta di chi ci conosce vede di noi nel mondo reale.
È come se fossimo sdoppiati: da un lato il nostro “io social” e dall’altro il nostro “io vero”. Il primo è generalmente disponibile per chiunque lo cerchi in Rete; il secondo è privato e conosciuto solo da pochi.
Questo sdoppiamento è spesso accompagnato dall’idea che ciascuno di noi sia in grado di gestire la Rete e che, “non avendo nulla da nascondere”, non comprenda che male ci possa essere nella diffusione di attività e di fatti personali. Per rispondere a quest’ultima osservazione mi pare che basti la famosa frase di Snowden: «Affermare che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come dire che non si è interessati alla libertà di parola perché non si ha nulla da dire». Per quanto riguarda la prima basta rammentare gli effetti devastanti che ha subito Jason Russell nel tentativo di gestire le reazioni negative al suo video Kony 2012.
Quindi, è importante rammentare che il nostro “io social” deve essere attentamente gestito e manutenuto, senza illudersi che ciò che appare oggi simpatico e divertente lo sarà anche tra qualche anno, quando vorremo cambiare lavoro o avanzare richieste di progressione in carriera. Non dimentichiamo che Internet non cancella nulla di quello che pubblichiamo se non lo facciamo noi.
Ecco un elenco di cose da fare e da non fare per migliorare o proteggere la Personal Web Reputation di ciascuno di noi:
Una volta compresa l’immagine che il Web dà di noi si può passare alla fase di gestione, eliminando eventualmente gli account non più utilizzati e chiedendo la cancellazione di tutti i nostri dati, cosa oggi resa possibile grazie al diritto all’oblio, di cui all’art. 17 del GDPR.