Guardando le passerelle delle ultime stagioni, dalle collezioni maschili a quelle femminili, da New York a Parigi passando per Milano e Firenze, c’è un’unica parola che rimbalza ovunque ed è diventata quasi un mantra: sostenibilità. Durante una conferenza del Copenaghen Fashion Summit del 2014, la giornalista Vanessa Friedman (all’epoca al Financial Times, oggi al New York Times) aveva iniziato uno dei suoi numerosi interventi – dal titolo Reduce, Revise, Regularise – ammettendo che l’espressione “moda sostenibile” era una sorta di ossimoro, un errore linguistico che metteva insieme due cose incompatibili fra loro. Come può infatti la moda, che per definizione è mutevole e spinge sempre al nuovo, conciliarsi con il desiderio di riutilizzare, conservare, rinunciare, infine comprare di meno? Lo sfarzo e la spinta consumistica comunemente associati all’industria della moda si sono ben presto scontrati con la nuova sensibilità ecologista che negli ultimi anni è cresciuta sempre di più fra i consumatori, al punto da costringere designer e marchi a cambiare il linguaggio con cui raccontavano se stessi e i loro prodotti. Si è parlato spesso, in questi ultimi anni, di “consumismo consapevole o responsabile”, anche questo un ossimoro, che sta ad indicare la trasformazione radicale delle abitudini di shopping cui assistiamo oggi. Una trasformazione che sta modificando profondamente il modo in cui i vestiti vengono pensati, prodotti e commercializzati. Da una parte i consumatori, sempre più digitalizzati e abituati a esperienze di shopping viziate dal cosiddetto “effetto Amazon”, richiedono infatti ai marchi servizi efficienti e prezzi competitivi, dall’altra pretendono però che gli stessi marchi siano trasparenti a proposito della loro filiera produttiva e si impegnino nel rispetto dei diritti dei lavoratori e delle regole ambientali. Brand come Patagonia, che è nato sotto l’impronta della sostenibilità e ha fatto del riciclo consapevole la sua filosofia sin dagli esordi, sono diventati un modello cui anche i marchi del lusso guardano, per la capacità di interpretare la crescente coscienza ecologica che spinge sempre più persone a comprare meno e meglio. Da Stella McCartney a Vivienne Westwood, tra le prime ad occuparsi del tema e a portarlo in passerella, fino a Marni di Francesco Risso e al nylon rigenerato di Prada, sono tanti gli stilisti e i brand che oggi si impegnano a garantire in una filiera quanto più possibile pulita, investendo su materiali sperimentali, tecnologie innovative e il miglioramento delle condizioni dei lavoratori del tessile, ancora oggi critiche in molti Paesi nel mondo (Italia compresa). La strada, però, è ancora lunga: se da un parte il rischio di greenwashing è dietro l’angolo, con la sostenibilità ridotta a mero strumento di marketing, dall’altra il ritorno dell’acquisto politico, o consapevole che dir si voglia, spinge l’industria della moda su un territorio nuovo, dove agli slogan dovranno necessariamente seguire i fatti.