L’epidemia di Covid-19, diventata – nostro malgrado – protagonista dell’attualità italiana dalla seconda metà di febbraio, sta avendo importanti effetti su tutta la nostra società, dal sistema sanitario fino all’economia. Diverse aziende hanno quindi aumentato significativamente le quote di telelavoro e di smartworking tra i propri collaboratori. E ora, viste le ultime misure restrittive, questo numero è destinato a crescere in modo esponenziale. Con il decreto del 22 marzo, il governo ha infatti sospeso fino al 3 aprile “tutte le attività produttive industriali e commerciali” che non sono essenziali per fronteggiare l’emergenza. Chiudono così le industrie del tabacco, dell’automotive, dell’abbigliamento, dei computer e dei mobili. Fermate anche le attività immobiliari, le agenzie di viaggio, le società di leasing e noleggio, le imprese di costruzione. Potranno rimanere aperte invece le industrie farmaceutiche e alimentari, i servizi postali e anche gli studi professionali. Alle imprese che possono farlo, ribadisce il decreto, è consentito proseguire l’attività in smart working. Ecco quindi che il lavoro agile diventa una necessità imprescindibile per chi non vuole fermarsi del tutto. Ma l’obbligo attuale potrebbe trasformarsi in una grande opportunità per il Paese e portare, anche in futuro, benefici a numerosi comparti.
Senza timore di smentite, già lo scorso 15 febbraio sia la CNN sia Bloomberg avevano infatti definito il coronavirus come attivatore del “più grande esperimento di smartworking della storia mondiale”. Ed è parere largamente condiviso che, una volta superato il picco epidemico, le buone abitudini diffuse in queste settimane potrebbero lasciare qualche strascico virtuoso di cui fare tesoro. Certo, di fronte a previsioni di un contraccolpo economico mondiale dell’ordine dei 100 miliardi di dollari non si può parlare di effetto positivo, ma specialmente il nostro Paese potrebbe approfittare di questi eventi eccezionali per colmare un gap tecnologico molto significativo rispetto alle altre grandi economie.
No a co-working e trasferte, sì al lavoro “tele” e “agile”. Oltre agli uffici, a essersi svuotati per primi sono stati gli spazi di co-working, di solito frequentati da liberi professionisti e partite iva, che hanno spostato la propria postazione di lavoro direttamente tra le mura di casa. Per le grandi aziende, invece, è già diventata maggioritaria la decisione di sospendere le trasferte non necessarie, sostituendo quando possibile gli incontri vis-à-vis con modalità oggi rese possibili dalla tecnologia. Qualche esempio? Chiamate multi-utente, video chiamate, meeting digitali o sistemi di lavoro in cloud, che spaziano dall’editing condiviso dei documenti alle piattaforme di messaggistica.
A seconda dei casi, il classico “stare alla scrivania” ha lasciato il posto a due modalità, spesso confuse ma in realtà con alcune differenze sostanziali: il telelavoro e lo smartworking, traducibile in italiano anche con l’espressione lavoro agile. Se comune a tutti è il non svolgere la prestazione lavorativa presso le sedi e le filiali aziendali, il telelavoro ha un’organizzazione molto simile a quella standard, ma è geograficamente trasferito. Tipicamente a casa, il tele-lavoratore ha una postazione fissa e deve rispettare rigidamente gli orari previsti dal contratto, incluse le pause e le altre possibili interruzioni. Nello smartworking, invece, il collaboratore può stare ovunque desideri e decide in modo autonomo quando lavorare, tanto che l’accordo contrattuale si basa sul raggiungimento di specifici obiettivi. Naturalmente il carico di lavoro deve essere proporzionato al tempo a disposizione, ed è previsto che siano concessi periodi di log off, in cui ci si può staccare completamente dai device senza dover garantire la reperibilità in qualunque momento.
Va da sé che lo smartworking, più del telelavoro, realizzi il paradigma della flessibilità. Al contrario del luogo comune secondo cui, fuggiti dalla sede aziendale, i lavoratori tendono a essere meno efficienti, le statistiche parlano di un aumento della produttività che si assesta sul 13%, quindi di una scelta che può rivelarsi vincente. Come punti a favore ci sono senz’altro l’eliminazione di tutti i tragitti da compiere per andare o tornare in azienda, ma anche una razionalizzazione dei tempi e delle energie dedicate ai meeting, nonché una maggior concentrazione garantita dalla tranquillità domestica rispetto al viavai dell’ufficio.
I numeri dello smartworking italiano. Nel nostro Paese più che in altri Stati europei, queste settimane possono diventare l’occasione per dare al lavoro agile quella propulsione che è evidentemente mancata fin qui. I dati Eurostat 2018, infatti, riportano una media europea di dipendenti in modalità smartworking pari all’11,6%, con punte in Olanda e Svezia sopra il 30%. E l’Italia? Beh, si fermava del 2%, pari a 354mila lavoratori. Già nel 2019 la situazione da maglia nera d’Europa è parzialmente migliorata: secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, che però ha costruito in modo diverso il campione, il computo è salito a 570mila, con una crescita anno su anno del 20%. Più della metà delle grandi imprese ha già avviato un progetto di smartworking, e un altro 12% ha concretamente intenzione di partire entro quest’anno. Secondo la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro, però, l’Italia potrebbe ambire a numeri di tutt’altro genere, perché sarebbero quasi 8 milioni e mezzo le persone traghettabili verso la modalità agile.
Ecco perché gli approcci hi-tech che si riveleranno vincenti potrebbero fare da trampolino di lancio, sia per qualcosa che possa restare anche dopo l’affaire coronavirus, sia per estendere queste modalità pure ai dipendenti pubblici. Quello del contenimento dei contagi, infatti, è solo uno dei molti vantaggi che lo smartworking potrebbe garantire, e che spaziano dal risparmio di tempo a quello relativo alle spese di trasporto, passando per una riduzione delle emissioni e anche per il miglioramento della qualità della vita nella quotidianità lavorativa, garantendo un miglior equilibrio con le necessità familiari o le proprie passioni. Naturalmente non tutte le professioni consentono questa modalità – pensiamo per esempio ad agricoltori, addetti al settore turistico e commercianti, già molto penalizzati da quanto sta accadendo – ma anche per quelle più facilmente digitalizzabili occorre anzitutto un salto culturale. Allontanando il falso ritornello del lavorare da casa significa lavorare di meno, e sostituendolo con un sempre più vero lavorare meglio, ossia fare più cose in meno tempo.