Ormai è un mantra: “nulla sarà come prima”. Vero, ma non possiamo fermarci a questa sia pur fondamentale considerazione. Rischieremmo di cullarci nell’idea che il mondo è cambiato così all’improvviso dal sollevarci paradossalmente dalle responsabilità. Sarebbe pericolosissimo, fatale in ambito economico.
Per le aziende italiane, dire che tutto cambierà dovrà tramutarsi in un’occasione storica: prendere atto che i processi evolutivi rinviati troppo a lungo devono essere realizzati. Qui e ora. L’impatto devastante della pandemia ha cancellato tempi e riferimenti comuni. Questo significa “niente più sarà come prima”. Se è vero che rischiamo di crollare a velocità terrificante, è pur vero che possiamo rivoluzionare il nostro modello economico come non ci è più capitato dai tempi del boom. Piuttosto che maledire la sorte, tocca a noi approfittare di una spinta tanto drammatica quanto irripetibile. Sfruttando anche la paura, sentimento fondamentale nella vita dell’uomo e non necessariamente nemico. Potremmo, anzi dovremo fare tutto quello che fino a due mesi fa sembrava impossibile o almeno molto complicato.
Il fulmineo adattamento di migliaia di aziende allo smart working, non di rado vissuto come una minaccia solo una manciata di settimane fa, è il caso di scuola. Ci mostra una grande opportunità, ma anche un rischio: nessuna impresa è esclusa a priori dal cambiamento e dalla digitalizzazione, anche le più “old economy” e a gestione più… tradizionale. Al contempo, lo smart working rischia di diventare una foglia di fico, dietro la quale nascondere le resistenze di sempre all’innovazione. Lo smart, che in realtà dovremmo chiamare agility, working è un mezzo, nulla più. Una sfida, certo, ma di natura prettamente organizzativa. Se le aziende italiane non cambieranno la mentalità, ragionando finalmente per progetti e produttività e non più per controllo e pura catena di comando, sarà tutto inutile.
Il digitale comporta una rivoluzione copernicana dell’approccio al lavoro, molto prima che pure competenze tecniche. Non dipende tanto dagli strumenti, dai device utilizzati, ma dalla preparazione e convinzione del fattore umano. Lo sfacelo della pubblica amministrazione, dove la digitalizzazione si è trasformata spesso in una semplice richiesta telematica di documenti cartacei, in difesa del burocrate di turno, deve valere come severissimo monito. O cambiamo radicalmente tutti approccio o mancheremo l’appuntamento con la storia. Il “nulla sarà come prima” resterebbe lettera morta, uno slogan buono per i talkshow, occasione per riempire l’aria di parole inutili.
Nei prossimi mesi, l’impresa italiana si troverà ad affrontare una concorrenza ancora più spietata, perché spinta dal puro istinto di sopravvivenza. Se non sapremo evitare che ai consueti svantaggi competitivi del costo del lavoro e della pressione fiscale si aggiunga un fatale ritardo nell’approdo al digitale e ai processi decisionali e operativi del terzo millennio, manderemo le nostre aziende al macello e con loro milioni di persone.
È una responsabilità epocale, ma anche un’opportunità come non se ne vedevano da sei decenni, dagli anni che trasformarono l’Italia da paese agricolo in potenza industriale. Nello spazio di una generazione, un unicum nella storia del mondo. Potremmo liberarci, nel giro di pochi mesi, di incrostazioni vecchie di decenni. Per farlo, dovremo essere onesti fino alla durezza: ce la faranno solo i più realisti, ma fantasiosi. I più flessibili e coraggiosi e chi saprà coltivare e premiare i migliori. Non ce la potranno fare quelli che cercheranno la soluzione in schemi che erano già finiti nel mondo di prima, ma che in quello in arrivo rischiano di essere solo un epitaffio.