Vi dice qualcosa il nome Robert Kelly? Kelly è uno stimato docente di scienze politiche dell’Università di Pusan, nella Corea del Sud. È un esperto di politica coreana che fa anche il corrispondente per la Bbc. Un bel giorno del 2017, durante un collegamento in diretta via Skype da casa, la sua autorevolezza di mezzobusto accademico in giacca e cravatta viene messa a dura prova da un’allegra invasione. La prima a irrompere nell’inquadratura è la figlia di quattro anni Marion con addosso un acceso maglione giallo. Vuole giocare con il papà e vuole giocare ora. Pochi secondi dopo la situazione precipita: si aggiungono alla scena il piccolo James su un girello (anche lui vuole giocare!) e la atterrita moglie Jung-a Kim che non vuole certo giocare ma nel disperato tentativo di recuperare i bambini finisce per trasformare quel collegamento in una micro-commedia slapstick. Quando il video ha cominciato a girare sui social, Kelly ha pensato che la sua carriera di mezzobusto tv fosse finita.
Tutt’altro: nel 2020, l’anno in cui tutti noi, volenti e nolenti, siamo diventati dei corrispondenti da casa nostra, Robert Kelly si è trasformato in un pioniere, in un profeta. La videocall, che prima della pandemia di Covid-19, ci poteva sembrare qualcosa di superfluo o di facilmente evitabile, si è trasformata in una pratica quotidiana della nostra vita, sia professionale che privata. Ci siamo abituati a sentire risate o canzoncine di bambini durante serissime riunioni via Zoom. Non ci colpisce più intravedere gli orrendi souvenir che decorano il salotto di un nostro collega in collegamento su Google Hangouts. E non ci fa più specie che il nostro capo ci faccia un briefing via Skype dal tavolo della cucina, con la pentola del ragù che borbotta dietro di lui. Ormai siamo tutti Robert Kelly e le videocall di lavoro ci stanno trasformando in professionisti meno azzimati e, auguriamoci, un po’ più simpatici.