“Sì, la tempesta passerà. Ma le scelte che facciamo ora potrebbero cambiare la nostra vita per molti anni a venire”. Così il celebre storico israeliano contemporaneo Yuval Noah Harari ha aperto una lunga riflessione sugli effetti a lungo termine del coronavirus sulla nostra società, pubblicata il mese scorso su Financial Times. Aggiungendo però una consapevolezza: archiviato il capitolo Covid-19 “abiteremo in un mondo diverso”, in una società di cui – forse inconsapevolmente – stiamo proprio ora costruendo i pilastri.
Viviamo settimane e mesi drammaticamente straordinari, una crisi globale che nessuno di noi ha mai dovuto affrontare e di cui abbiamo trovato analoghi sfogliando i libri di storia. Lo sviluppo di questa crisi è solo apparentemente limitato al comparto sanitario, ma come già ci stiamo accorgendo finisce per investire profondamente prima l’economia e poi l’intera società, politica inclusa. E la parte più complessa – spiega Harari – è che dobbiamo agire in modo veloce ed energico, ma allo stesso tempo le decisioni emergenziali prese ora avranno una portata ben più ampia dell’epidemia stessa: disegneranno il futuro.
Quando il male accelera il corso della storia
In tempo di pace l’evoluzione dei processi è lenta. Le sperimentazioni richiedono anni di discussione prima di partire, e c’è sempre qualcuno che si oppone al nuovo e rallenta ulteriormente i processi. In tempo di emergenza, invece, le scelte si compiono in poche ore, la burocrazia si velocizza, le maglie del confronto si allentano. Le decisioni, una volta prese, difficilmente vengono annullate al termine della crisi, ma anzi restano consolidate nel sistema sociale e giuridico. Ed è proprio ciò che è accaduto in Francia con gli attentati del 2015 – spiega Harari – che hanno forzato regole emergenziali poi trasferite nei codici nazionali del diritto. Lo stesso accade da sempre nella sua Israele, dove lo stato di emergenza è formalmente attivo fin dalla nascita dello Stato.
Ma quali settori stanno davvero affrontando una rivoluzione? Un esempio molto concreto, sotto gli occhi di tutti, è l’accelerazione nell’uso delle tecnologie di comunicazione da remoto. Che sia nella declinazione dello smartworking, oppure in quella dell’e-learning o ancora nella digitalizzazione di tutte le possibili forme di incontro, si tratta in fondo di uno stesso grande processo. Nessuno a breve termine avrebbe mai approvato un esperimento nazionale e internazionale di scuola da remoto, né sarebbe mai passata la proposta di fare cerimonie di laurea e tavoli di lavoro internazionale in streaming. Eppure lo stiamo facendo, e al termine del periodo epidemico raccoglieremo i frutti di questo test forzato collettivo. Passata la bufera, saremo portati a chiederci se tante attività del nostro vivere quotidiano fossero davvero necessarie.
Democrazia, sorveglianza, cooperazione e confini
I modi in cui lavoriamo, impariamo e ci incontriamo sono solo un esempio minuscolo, e per certi versi di importanza trascurabile, di quello che c’è in gioco ora. “In questo tempo di crisi abbiamo di fronte due scelte particolarmente importanti”, ha annunciato Harari. “La prima è tra un modello di sorveglianza totalitaria e la responsabilizzazione dei cittadini. La seconda è tra l’isolarci nei nostri nazionalismi e il dare vita a una vera cooperazione globale fondata sulla solidarietà”. Entrambe le scelte sono fondamentali e necessarie per riuscire a contenere il contagio. Ciascuna delle due, però, ci pone davanti a un bivio: la strada da imboccare va scelta per forza, e in fretta, consapevoli che non si potrà tornare indietro.
Il primo punto riguarda la strategia per far sì che ciascun cittadino non contagi altre persone qualora contragga il virus. La via della responsabilità è fatta di formazione, di presa di coscienza collettiva e di comportamenti virtuosi individuali, in cui ogni persona rispetta le regole di igiene e di distanziamento sociale, segue scrupolosamente le indicazioni delle autorità e resta rigidamente isolata in casa quando ci sono evidenze che abbia il virus. L’altra strada possibile è quella del controllo di massa, in cui gli ingredienti fondamentali sono l’adozione di strumenti hi-tech e l’intervento di uno Stato che diventa Grande Fratello. L’idea di adottare collettivamente un’app per tracciare i nostri contatti e spostamenti attraverso lo smartphone va in questa seconda direzione, anche se rappresenta appena il primo passo.
“Dalla sorveglianza in tasca a quella sottopelle il passo è breve”, ammonisce Harari, “e il sistema di monitoraggio centralizzato deve contemplare pure un sistema di sanzioni per chi non rispetta le regole”. La Cina – con tracciatura via app, check point per il monitoraggio della temperatura e telecamere per il riconoscimento facciale – è il Paese che al momento è più avanti su questa strada, ma il vero passaggio storico sarà la raccolta e l’analisi delle informazioni di contesto. In questa variante chi gestisce i dati avrà la capacità (almeno in linea teorica) di usare gli stessi strumenti anche per capire le nostre emozioni, o nella variante distopica per manipolarci. E naturalmente tutto ciò ha molto a che fare con il modo in cui vogliamo intendere il futuro della democrazia.
La dicotomia tra isolazionismo e collaborazione internazionale si gioca invece sulla gestione dei confini. Possiamo immaginare che ogni Stato blindi le proprie frontiere e azzeri i flussi di persone in uscita, e soprattutto in entrata. Il modello opposto è invece quello della condivisione – anzitutto delle informazioni e delle conoscenze scientifiche – in cui ciò che un Paese ha appreso e capito viene immediatamente comunicato alla comunità globale: una nuova conoscenza conquistata a Pechino viene arricchita in Europa qualche ora più tardi, e poi la staffetta continua con gli Stati Uniti e così via, in un circolo virtuoso. Naturalmente in questo modello anche gli spostamenti delle persone vengono coordinati, limitati ma non impediti del tutto. “Politici, imprenditori, giornalisti, scienziati e medici non possono smettere di muoversi”, ha proposto Harari, “ma affinché questo sistema funzioni è necessario che ciascun Paese monitori rigidamente le persone in uscita, o non saremo capaci di scongiurare i contagi di ritorno”.
Se il mondo, per il resto del Ventunesimo secolo, sarà frammentato o unito in una squadra globale è ancora tutto da capire, e la partita è in pieno svolgimento. Una Terra disunita vivrebbe probabilmente crisi più lunghe, e catastrofi più gravi. “Viceversa”, conclude Harari, “la via della solidarietà può regalarci una vittoria non solo contro il nemico coronavirus, ma potenzialmente contro tutte le minacce globali che dovremo affrontare nel resto del secolo, di natura sanitaria e non solo”.