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Il biomedicale adotta l’open innovation per salvare vite dal coronavirus

Scritto da Redazione di LinC | 02/06/20 9.34

Ormai lo abbiamo imparato bene, purtroppo: uno dei colli di bottiglia più importanti durante la fase critica dell’emergenza sanitaria è stata la scarsa disponibilità di posti letto in terapia intensiva. Non tanto per la capienza dei reparti ospedalieri, che può essere facilmente aumentata, ma per la quantità insufficiente di macchinari di ausilio alla respirazione.

Per fortuna in tutto il mondo – a partire dall’Italia – sono nate molte iniziative di innovazione solidale che hanno portato allo sviluppo di respiratori alternativi, realizzati riconvertendo altri macchinari ospedalieri o dei dispositivi con tutt’altro genere di utilizzo. Famosi, tanto per citarne un tipo, le maschere da sub trasformate in sistemi di ventilazione, così come i caschi CPAP riutilizzati per uno scopo diverso da quello per cui erano stati concepiti. Azioni tutt’altro che simboliche, ma che hanno contribuito a risparmiare vite.

Dalle imprese di meccanica ai fab lab (i laboratori di fabbricazione), dalle università italiane a quelle statunitensi, ingegneri, inventori, maker e medici hanno lavorato insieme per innovare a tempo di record, in molti casi con successo. Spesso senza dirlo esplicitamente, hanno messo in pratica appieno il paradigma dell’open innovation, condividendo intuizioni, prototipi e risultati, senza preoccuparsi di chi ne avesse i diritti commerciali e intellettuali.

È stato dimostrato con i fatti qualcosa che vale non solo in tempo d’emergenza: il mondo dei segreti industriali e dei brevetti non è il contesto migliore per far progredire l’innovazione, né come velocità né per la qualità dei risultati. Certamente ha alcuni vantaggi strutturali (fra cui ad esempio il garantire uno stipendio a chi vive di sola ricerca tecnico-scientifica), ma allo stesso tempo non è – in un’ottica globale di tutela del genere umano – l’organizzazione più efficiente. Insomma, monopòli e oligopòli si portano dietro un ineluttabile fardello di lentezza.

Ventilatori polmonari: il caso che fa scuola

Di fronte alla necessità di sopperire alla carenza di ventilatori con alternative rapide e pure economiche (dato che la strumentazione-tipo costava 30mila dollari a paziente), il primo passo è stato mettere d’accordo tutti gli operatori della filiera che le questioni legali fossero tenute fuori, evitando di inserire ostacoli e barriere tra la conoscenza tecnologico-scientifica acquisita e l’arrivo dei dispositivi negli ospedali.

Le premesse non erano semplici: non solo i dispositivi da realizzare dovevano essere sicuri e funzionanti, ma anche scongiurare un falso senso di efficacia che avrebbe potuto ritardare altri tipi di trattamento, di fatto trasformando l’obiettivo di salvare vite umane nel risultato di metterle ulteriormente in pericolo. Per questo gli standard tecnici del progetto – messi nero su bianco dal MIT di Boston, ad esempio – hanno previsto che i dispositivi fossero compatibili con i sistemi ospedalieri di raccolta dati, così che i medici potessero monitorare costantemente i parametri vitali.

Ognuno ha reso pubblici i risultati della propria parte del lavoro. Progetti, esito dei test, nuove conoscenze ottenute dalla sperimentazione sui maiali: in pochi giorni le conoscenze erano pressoché totali. E soprattutto qualunque informazione è stata condivisa in rete sotto licenza Creative Commons, rendendo possibile sia la ricondivisione sia il continuo aggiornamento dei contenuti. In pratica, dunque, nessuno poteva mettere bastoni tra le ruote nel processo di sviluppo, o peggio arrogarsi i diritti commerciali sui device medici completati. E le migliorie erano gestite da tecnici e scienziati, senza tutte le briglie imposte dal rispetto di un fitto intreccio di brevetti.

Un processo non privo di resistenze

L’open innovation non può generarsi da sola dal basso. Ossia, senza un coordinamento a livello nazionale o sovranazionale è più che probabile che qualche azienda si cimenti in furberie e trucchetti giuridici. Non è un caso che in molti Paesi il legislatore si sia mosso rapidamente per fissare – almeno per il periodo dell’emergenza sanitaria e per i pazienti Covid-19 – delle norme che svincolassero il processo innovativo da una serie di vecchi brevetti, alcuni dei quali costruiti ad hoc proprio per non essere aggirabili e quindi per mungere denaro a startup e imprese innovative.

I Paesi più reattivi in questo senso sono stati Germania, Cile, Canada ed Ecuador, ma il caso più eclatante arrivato alle cronache è emerso negli Stati Uniti. Qui una compagnia – la Labrador Diagnostics – è stata creata appositamente per fare causa a tutte le startup che iniziassero a lavorare sui respiratori, forte di alcuni diritti acquisiti dalla startup Theranos (dopo che quest’ultima era fallita in seguito al palesarsi di alcuni tentativi di frode sanitaria). In altri casi, invece, aziende con un grande potenziale in termini di ricerca e sviluppo si sono rifiutate di dare una mano gratuitamente nella battaglia contro il nuovo coronavirus, ma hanno chiesto in cambio benefìci ai propri governi. Primo fra tutti il prolungamento della durata di alcuni brevetti in loro possesso. Sempre negli Stati Uniti, ad esempio, questo ricatto ha trovato pure l’appoggio politico di qualche senatore, al punto da arrivare persino a essere discusso al Congresso. Il tutto con la scelta – da parte di alcune aziende – di appendere al chiodo la creatività e le capacità dei propri dipendenti fino a che la questione legale non fosse stata chiarita.

Ma ci sono anche belle storie, nordamericane e non solo: alcune aziende biomedicali e farmaceutiche, consapevoli di avere in mano dei brevetti che avrebbero bloccato o rallentato il lavoro di sviluppo di dispositivi anti-Covid, hanno spontaneamente rinunciato ai propri diritti, aderendo all’iniziativa internazionale The open COVID pledge. Vale a dire, hanno messo a disposizione gratuitamente tutto il know how dei loro brevetti alla comunità internazionale. Anche se non hanno abbracciato appieno il paradigma dell’open innovation (perché non si tratta di una licenza totalmente libera, soprattutto perché limitata nel tempo), c’è almeno la garanzia che hanno un approccio aperto-quanto-basta per il tempo della pandemia e dell’emergenza sanitaria globale.