LincMagazine

Le 50 giornate di Milano

Scritto da Redazione di LinC | 05/06/20 10.10

Dall’accaparratore seriale agli anziani informatizzati di colpo, dai tanto vituperati runner agli immancabili apericena che diventano smart, passando per la crisi d’astinenza da Inter e il lamento di un cane esasperato dalla sciatteria della sua padrona. Ecco il milanese doc durante la quarantena per il coronavirus, un tipo che sbuffa in continuazione ma poi “le cose che gli dici di fare alla fine le fa”.

È questo il ritratto, molteplice e ironico, che Enrico Bertolino traccia dei cittadini del capoluogo lombardo alle prese con l’emergenza sanitaria. Confinato nella clausura domestica, il comico e firma di Lincmagazine.it ha continuato a fare quello che gli riesce bene: usare le parole per raccontare il ridicolo della nostra vita. Scritto con Enrico Nocera ed edito da Solferino, “Le 50 giornate di Milano. Diario semiserio di un barricato sentimentale” è una cronaca esilarante della nostra vita in quarantena. Un instant book (in libreria dal 14 maggio) scritto dal punto di vista di un milanese doc che tocca tutti i cliché e i dilemmi esistenziali con i quali ci siamo dovuti confrontare in più di due mesi di reclusione: la fine delle partite di calcio, la perdita di socialità e la parola ritrovata tra moglie e marito, lo smart working, la chiusura dei negozi cinesi di Paolo Sarpi, il look anti contagio e lo choc di una città – Milano – abituata a crescere e correre che di colpo si deve fermare. E se ora tutto (forse) è cambiato, c’è qualcuno che invece non cambierà mai: i pirla, ai quali è dedicato il capitolo conclusivo del libro, sopravvissuti intatti alla pandemia, ma con i quali ora si potrà provare a convivere pacificamente.

Perché scrivere un diario ironico su un periodo come questo? Era inizio marzo quando Bertolino ha proposto un piccolo show in diretta Facebook da casa sua. Un modo, aveva spiegato, per “far sorridere in un momento in cui si diramavano solo bollettini di guerra”. Ecco, quando la situazione si è aggravata, è stato l’editore a chiedere al comico di scrivere un libro su Milano. E alla fine la risposta è rimasta simile: si ironizza perché come l’“ofelè fa el so mestè”, cioè il ciambellaio fa le ciambelle, i comici usano l’umorismo per provare a esorcizzare ansie e timori che tutti hanno vissuto per mesi. Così nascono descrizioni di scene in cui chiunque si può riconoscere, come la quotidianità del lavoro da casa: “Il circolo vizioso da sovraffollamento, diciamolo, non è esattamente fatto per agevolare lo smart working casalingo né del marito in astinenza calcistica né della moglie già sull’orlo di una crisi di nervi da capello crespo, mentre vostra figlia, chiusa in casa da chi si ricorda quando, punisce il tuo averle sequestrato l’iPad brandendo la Barbie principessa per rincorrere il fratellino che rincorre il cane che rincorre il gatto che rincorre il topo che al mercato mio padre comprò”. Oppure c’è lo scorno degli over 65 milanesi, improvvisamente bollati come anziani mentre fino al minuto prima vivevano da Silver Man e Wanted Woman, in piena iperattività.

Dietro le battute si sente un affetto vivo per la città, quello di chi è nato, cresciuto e ancora vive nello stesso quartiere, Isola. Ma il Diario semiserio guarda anche al dopo pandemia quando lancia proposte ardite per non perdere lo spirito di solidarietà manifestato durante l’emergenza, come l’istituzione di trattorie etniche cinesi-milanesi, in fondo così simili tra loro. Bertolino invita il lettore a guardare al “lato B della sfiga”, cioè agli aspetti positivi che possiamo trarre da questi mesi anche se ora siamo in piena crisi economica e sociale. Abbiamo scoperto, per esempio, che è bello scambiare due parole con il vicino da un balcone all’altro e l’importanza di una serie di professioni che prima non consideravamo affatto, come gli addetti alla pulizia delle strade, medici e infermieri, farmacisti, conducenti dei mezzi pubblici, edicolanti e rider. Se Milano resta la stessa di sempre e i milanesi rimangono i soliti barbutuni dediti al fatturato, entrambi hanno sempre preso qualcosa di buono dalle aggressioni subite, come è successo con le Cinque Giornate. E magari lo prenderanno anche dal virus. Però non si provi a stilare il classico elenco delle buone intenzioni: sarebbe giù un successo, dicono gli autori, “portare a casa una cosa o due da tutto questo. Per esempio, capire che vivere insieme nella stessa città non vuol dire automaticamente esserne dei cittadini e che, senza dare un senso alla parola “collettività”, da situazioni come quella appena vissuta non si esce”. E se il finale si auto-taccia come buonista, la speranza è di non perdere per strada la consapevolezza acquisita in questi mesi.