Chi ama i classici parlerà forse di vacatio iuris, ma la sostanza resta quella: nel quadro legislativo italiano che regola il cosiddetto “smart working” c’è uno spazio vuoto e sarebbe il caso, da parte della politica, di riempirlo.
Ne è convinto Luca Battistini, direttore Risorse umane e organizzazione di Capp Plast Srl, storica azienda toscana produttrice di plastiche per imballaggi che nel 2020 compie (ma per ora non festeggia, causa Covid) sessant’anni di attività. Prima però occorre fare qualche passo indietro perché il modo in cui Capp Plast ha affrontato questa lunga fase di emergenza merita di essere raccontato.
La plastica, è noto, non gode di buona fama per motivi essenzialmente ambientali. Sono però proprio aziende come la Capp Plast (260 addetti, tra diretti ed indiretti, per 63 milioni di fatturato nel 2019 e un sito produttivo anche in Olanda, al servizio dei mercati nordeuropei) a far capire che un uso virtuoso di questo materiale, spesso indispensabile, è davvero possibile.
Capp Plast, oltre a produrre contenitori, flaconi, pallets, buste, eccetera, ha creato una divisione “rigenerazione” che di per sé non sarebbe produttiva ma che, grazie alla raccolta degli sfridi di lavorazione, elimina gli scarti e soprattutto chiude il ciclo di produzione in modo sostenibile sia dal punto di vista ecologico che economico, con il risparmio generato. Mica male.
Cosa è successo negli stabilimenti italiani di Capp Plast durante il lockdown? Lo spiega lo stesso Battistini: “Siamo rimasti sempre aperti perché la nostra era un’attività considerata essenziale: molti dei prodotti infatti sono destinati all’utilizzo in campo medicale e nella sanificazione. All’inizio però non è stato facile, abbiamo dovuto affrontare criticità esogene ed endogene”. L’approvvigionamento di materie prime era diventato complicato, ricorda Battistini, complice anche l’oscillazione del prezzo del greggio, e il trasporto all’esterno dei prodotti finiti a sua volta presentava complessità. Importante, in questa fase, è stato proprio il ruolo delle risorse umane, che hanno assistito i lavoratori nei momenti di incertezza e confusione, non solo per esempio sul corretto uso di mascherine e guanti, ma anche e soprattutto nel garantire un supporto psicologico ed operativo ad eventuali situazioni di criticità che si sono presentate. In più è stato redatto e poi implementato un “Contingency Plan” di mappatura e gestione del rischio condiviso da due comitati, uno direttivo di tipo tecnico-manageriale e uno operativo, in cui sono stati coinvolti Rsu e Rls: scopo principale era lo scambio continuo di informazioni in entrambi i sensi.
Ottima gestione dell’emergenza, quindi? Non proprio, o meglio non solo, perché già alla fine dell’anno scorso in Capp Plast era stato siglato un patto sociale molto innovativo per il settore manifatturiero che prevedeva la creazione di una Commissioni Paritetica composta di dirigenti di diversa funzione a seconda delle tematiche trattate, dalle parti sindacali interne, dalla funzione prevenzione e protezione, nonché dei lavoratori. Un’azienda illuminata, insomma, dove si rema tutti nella stessa direzione anziché scornarsi in battaglie inutili.
Ma veniamo allo smart working. Battistini ricorda come in realtà qualcosa di molto simile, al netto del boom digitale dei decenni successivi, in Italia esistesse già nel 1973: “Si chiamava lavoro a domicilio ed era molto diffuso in settori come il tessile. A molti operai, spesso donne, venivano portate certe lavorazioni a casa, perché magari in quella sede avevano macchine che in stabilimento non c’erano, e successivamente riportavano il prodotto finito in azienda qualche giorno dopo”. Saltiamo poi al 2017, anno in cui viene promulgata la famosa legge 81 che, secondo Battistini, crea confusione già dal titolo: “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Perché si parla di tutela del solo lavoro autonomo? E dopo come mai si parla invece di flessibilità solo per il lavoro subordinato? Ma soprattutto, sottolinea Battistini, perché ci sono solo cinque articoli, quelli dal 18 al 23, che regolano un fenomeno complesso come quello del lavoro “agile”?
“Mi auguro che possa scaturire, dall’intenso dibattito presente in questi giorni sui vari mass-media, una fase 2 dello smart working, che possa colmare le lacune che ha lasciato la legge 81/2017, interpellando anche i vari soggetti che nelle aziende gestiscono il lavoro tutti i giorni (siano essi imprenditori, o colleghi del mondo HR), affinché possano suggerire al legislatore spunti di riflessione utili a definire meglio il quadro normativo”, chiede il manager. “I benefici del “lavoro agile” sono più che evidenti: “In generale meno spostamenti, meno traffico, meno smog e decongestione dei centri urbani: per i lavoratori poi una migliore gestione della socialità e della vita privata, per le aziende riduzione delle spese per uffici, spazi o servizi come la mensa e le pulizie”. Tutta da vedere, invece, la questione delle motivazioni: “Quella dipende dal grado di responsabilità del lavoratore, da quanto è evoluto”.
Fra gli svantaggi invece una possibile “emarginazione” del lavoratore smart, e qui Battistini non rinuncia all’(auto)critica della categoria di cui fa parte: “Ci sono responsabili risorse umane che fanno fatica a valutare il valore di un lavoratore in presenza, figuriamoci da remoto”, avverte. Attenzione poi alla possibile ghettizzazione di certe categorie di lavoratori, per esempio le donne. Sullo sfondo anche problemi di tipo “tecnico” come la gestione dei dati di chi lavora da remoto (password, accesso alla Intranet, tracciabilità, ecc) o anche la questione degli infortuni e della relativa copertura con Inail: “Chi sta a casa ha rischi quasi zero, chi va in stabilimento e opera su una linea produttiva è ovviamente molto più esposto: vanno ridefiniti dei parametri”. Ecco, ridefiniamoli. Meglio.