La Covid-19 non è l’ultima emergenza sanitaria globale che ci troveremo ad affrontare. Di certo, nel bel mezzo di una pandemia che ha sconvolto il mondo, la prima preoccupazione va all’oggi e all’immediato futuro più che verso scenari ipotetici e distanti nel tempo. Ma il nuovo coronavirus dà anche lo spunto per valutare che cosa stia funzionando e cosa no nell’ecosistema dell’innovazione farmaceutica. È fuor di dubbio, infatti, che a decretare la fine dell’emergenza sanitaria sarà l’identificazione e la produzione di un trattamento capace di risolvere, o meglio ancora di prevenire, l’infezione. Questo non vuol dire sottovalutare l’importanza delle precauzioni individuali, delle decisioni governative e dei dispositivi di protezione, ma riconoscere che la ricerca e l’industria farmaceutica hanno un ruolo decisivo in situazioni come questa, a meno di eventuali uscite di scena del Sars-Cov-2 per motivi indipendenti dall’agire umano.
Ecco perché questi mesi, oltre a essere decisivi per sconfiggere il nuovo patogeno, sono anche un formidabile test per la tenuta e la capacità innovativa del comparto farmaceutico. Una prima lezione è già emersa chiaramente: al momento l’impostazione generale del lavoro è reattiva e non proattiva, ossia si fonda su un approccio da pompieri nell’affrontare l’emergenza più che su una solida struttura già pronta a fronteggiare novità impreviste. Impreviste per quanto riguarda lo specifico patogeno, ma più che pronosticabili in termini di scenari pandemici.
Dai vecchi farmaci ai nuovi vaccini
Come tutti abbiamo imparato bene, il primo tipo di trattamento su cui riporre le speranze – in termini cronologici – sono i farmaci già in commercio. Qualcuna delle formulazioni già approvate, infatti, potrebbe potenzialmente essere efficace anche contro il nuovo coronavirus. E anche se l’attenzione mediatica su questo tema è enorme (proprio perché rappresenta la via per arrivare a una soluzione in tempi brevi o brevissimi), l’evidenza insegna che i risultati pratici sono piuttosto scarsi, nel senso che anche i farmaci con risultati migliori possono garantire solo una parziale soluzione del problema. Possono salvare alcune vite, evitare qualche ricovero in terapia intensiva, ma non rappresentano un game changer.
L’altro grande filone di breve termine consiste nello sfruttare gli anticorpi di chi è riuscito a sconfiggere il virus. Una strada con punti di forza e di debolezza, non certo di frontiera, che senz’altro rientra tra quelle strategie reattive alla pandemia che non sono di per sé un modello proponibile come via principale per fronteggiare le patologie emergenti.
Molte delle grandi aziende farmaceutiche si sono dunque celermente messe al lavoro per identificare e sviluppare un vaccino efficace contro il Sars-Cov-2. Ed è proprio qui che – dando per assodata la capacità scientifica e la buona volontà di queste realtà – emergono gli inghippi. Attualmente il record di velocità per la produzione di un nuovo vaccino è di 4 anni. Riducendo all’osso i passaggi burocratici e stringendo tutto il possibile, si stima che in uno scenario favorevole (che non è detto si delinei) si possa arrivare a dimezzare questo tempo. Sempre ammesso che il nuovo vaccino possa essere sviluppato in modo analogo ad altri già esistenti: se invece pensiamo a trattamenti di tipo nuovo, ideati da zero, i tempi si fanno necessariamente molto più lunghi.
Se dunque l’approccio a doppia via – quella più rapida accanto a quella vaccinale – ha certamente senso in questa fase, in generale può valer la pena di chiedersi se sia la strategia migliore. E probabilmente non lo è affatto, perché tralascia completamente la via più importante di tutte: la preparazione e l’anticipazione.
Questioni di soldi e di politica
Per l’industria farmaceutica è conveniente puntare su un’innovazione incrementale, su nuovi trattamenti che siano simili ad altri già esistenti e per questo meno faticosi da produrre e testare, così come mediamente più sicuri. Tanto che, si stima, circa 4 “nuovi trattamenti” su 5 sono in realtà piccole variazioni di trattamenti vecchi, o nuovi modi di combinarli.
Ma il problema di questo modo di lavorare è che non incentiva i cosiddetti breakthrough, le disruption, le discontinuità. Senza un modello a incentivi, senza una discreta probabilità di successo, puntare alla vera innovazione vorrebbe dire pretendere dalle aziende grandi investimenti alla cieca. Ecco perché, di fatto, spesso la linea d’azione delle industrie farmaceutiche è più prudente e conservativa.
Calando queste considerazioni nella pratica, tutto ciò si applica anzitutto al filone dei trattamenti antivirali. Senza incentivi, con esiti incerti e un mercato del tutto irregolare, è uno dei settori su cui si concentrano in generale meno investimenti in ricerca e sviluppo. Con pochi risultati negli ultimi decenni e molti soldi investiti a perdere, diverse case farmaceutiche hanno abbandonato il campo. Salvo poi che le persone si ricordino improvvisamente del tema quando ce ne sarebbe bisogno, magari perché è spuntato un virus nuovo e sconosciuto. Qualcosa di simile si può dire per il tema dell’antibiotico-resistenza, relativamente al quale la ricerca procede a passi piccoli e lenti, o per i trattamenti di certe patologie croniche.
Il tema è diventato una questione politica negli Stati Uniti, che da tempo vantano il primato di pioniere mondiale nella farmaceutica e che vedono in questa fase incrinata la propria reputazione, dato che l’impreparazione generale era evidente. Così si è tornato a parlare di incentivi a lungo termine per la ricerca, di insistere su strategie terapeutiche nuove e più in generale di lavorare prima che un’emergenza si manifesti, in modo da avere un più ampio ventaglio di opzioni scientifiche da mettere in campo quando è il momento.
Per la Covid-19 ormai si procede a vista e in ordine sparso, in attesa che qualcuno arrivi con una valida soluzione terapeutica o vaccinale messa a punto alla massima velocità. Ma per la prossima pandemia, perché prima o poi accadrà di nuovo, tutti ora vorrebbero che ci si facesse trovare più pronti, e che la ricerca proseguisse anche nel tempo di pace interpandemico.