Come sottolinea uno studio della Fondazione consulenti del lavoro, in Italia ci sono già 665mila lavoratori autonomi monocommittente, oltre tre milioni di lavoratori dipendenti a termine, cui vanno aggiunti pure altri 700mila lavoratori della cosiddetta Gig economy, ovvero i rider, i trasportatori con furgoncini, gli addetti alle piattaforme di indagini di mercato, ecc. E, infine, ci sono stati fino a 6,2 milioni di lavoratori in smart working, che tuttavia la stessa Inail ha definito “lavoratori ibridi, tra lavoro agile e telelavoro”.
Insomma, circa il 50% della forza lavoro italiana appartiene a una categoria ibrida per la quale l’attuale normativa appare molto deficitaria. C’è un modello, in ambito bancario (gruppo Intesa San Paolo), dove questa ibridizzazione sta assumendo anche contorni formali, con una serie di persone cui viene fatto sia un contratto di lavoro subordinato part-time, sia un contratto di lavoro autonomo, con mandato di agenzia.
Ma per il resto del mercato ci sono ancora molte zone d’ombra. “Sicuramente alcune forze sociali spingono per una nuova normativa sullo smart working – commenta Ester Dini, responsabile centro studi Fondazione consulenti del lavoro – in modo da ampliare le tutele, affermare il diritto alla disconnessione, alla salute e sicurezza anche a casa. Altri, invece, consigliano di aspettare che si sviluppi appieno questa fenomenologia. Anche perché vi sono già molti segnali di un ritorno al lavoro in ufficio. Dal mio punto di vista occorre superare lo Statuto dei lavoratori del 1970, che ha nel contratto a tempo indeterminato il suo paradigma”.
Oltre alla necessità di inquadrare meglio il lavoro agile, c’è poi il grosso problema del lavoro autonomo. “Una categoria che con il Covid-19 rischia di pagare i costi più alti – prosegue Dini -. Parliamo del popolo delle finte partite Iva, radicato sempre di più anche nei segmenti professionali alti. Dalla crisi del 2008 il lavoro autonomo non si è mai più ripreso, e la propensione dei giovani italiani a mettersi in proprio si è ridotta moltissimo. Quindi, nel mettere mano a una riforma del lavoro bisogna tenere presente almeno due fatto. Il primo è che la normativa sul lavoro dipendente non è più in grado di normare le diverse nuove tipologie. Il secondo è che pure la norma sul lavoro autonomo necessita di integrazioni per regolamentare figure nuove di lavoratori autonomi, più precarie, con situazioni ibride e borderline”.
Perciò, quali sono le soluzioni? “Al momento è inutile fare normative ad hoc sulle singole situazioni. Bisogna invece fare una revisione delle leggi sul lavoro a tutto tondo, cercando di ripensare agli approcci. In primis vanno ribaltate le logiche dello statuto dei lavoratori e dei suoi paradigmi fissi. Meglio invece ragionare su piattaforme di tutela uguali per tutti i lavoratori a prescindere dal loro inquadramento. Tutele del reddito, della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro, della previdenza, e soprattutto della formazione, che è la vera tutela della occupabilità, per poter restare sul mercato del lavoro”.
Il grosso della attenzione in queste settimane va ovviamente sul lavoro agile, lo smart working, gli uffici in città che si svuotano, la gente che sogna di lavorare per sempre dalla spiaggia. Queste prospettive hanno senso? Innanzitutto, in Italia il lavoro agile tende ad avvantaggiare i lavoratori con un reddito alto, in prevalenza uomini, accentuando così le disuguaglianze sociali. È quanto emerge da uno studio curato dall’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Secondo il report, lo smart working, per come è praticato, diventa un Robin Hood al contrario, che favorisce i ricchi, le professionalità alte, e danneggia i più deboli, almeno dal punto di vista del reddito.
Peraltro, il cosiddetto smart working ai tempi del Covid-19 “è stato spesso fatto tutto in emergenza, con un lavoro certo subordinato ma con grande autonomia di prestazione e di tempi di lavoro. Ovvero, un tipo di lavoro fuori dagli schemi. Tuttavia – continua Ester Dini – non può essere normato come un unico modello. Un conto, infatti, è fare smart working in una azienda manifatturiera, un conto in una società di software, dove si ragiona molto per obiettivi. O, ancora, se lavori in un call center, o negli uffici dell’Inps: in quei casi il tema dell’orario di lavoro assume una valenza assoluta. Bisogna poi capire perché una azienda vuole attivare lo smart working: per aumentare la produttività, o solo perché tiene alla salute dei suoi dipendenti? E, inoltre, chi fa lo smart working? Ci sono di solito professionalità alte, più adatte, e invece lavoratori con meno abilità che non lo possono fare. Il lockdown ha avuto un effetto ancor più divaricante, con le alte professionalità che hanno continuato a lavorare, e invece le figure più basse, gli addetti in negozio o alla ristorazione, che erano fermi. Il rischio, quindi, è che lo smart working crei ulteriori segmentazioni in un mercato del lavoro che già ne ha molte. Insomma, è un fenomeno in divenire. E ritengo sia meglio non fare nuove norme senza una revisione completa del mercato del lavoro. Ora è auspicabile lasciare spazi a livello di contrattazione collettiva nazionale e a livello di accordi tra azienda e lavoratori”.
Ma il sogno di lavorare dalla spiaggia? “Mah, in giugno già il 40% dei lavoratori in smart working in Italia è tornato in sede. L’esperienza di questi mesi ha fatto capire bene tutte le potenzialità dello smart working, ma pure tutte le potenzialità del lavoro in sede, la dimensione comunicativa, lo scambio, la relazione. Perciò – conclude Dini – vedo un modello futuro che andrà sempre più verso un giusto mix tra lavoro in presenza e lavoro a distanza”.