In tempo di emergenza sanitaria, la concorrenza potrebbe non essere il motore più efficiente per offrire una soluzione ottimale contro la pandemia, soprattutto quando la competizione diventa spietata. Il modo in cui, già dalla fine del 2019, è iniziata la corsa alla ricerca di una formula vaccinale che garantisca immunità contro il virus Sars-Cov-2 ha mostrato chiaramente che – pur trattandosi di uno sforzo globale – le migliori menti al mondo stanno lavorando separatamente. Per qualcuno, che probabilmente sarà una delle grandi aziende farmaceutiche, questa gara si concluderà con un grande trionfo. Ma una piccola sconfitta può già essere registrata in anticipo: il vaccino che avremo a disposizione, sperabilmente presto, non sarà il più soddisfacente che l’umanità e la scienza nel 2020 avrebbero potuto produrre.
Tutto quello che viene lasciato per strada
Ci sono diverse ragioni per cui un lavoro collettivo e coordinato tra i vari stakeholder sarebbe preferibile, dal punto di vista della salute pubblica. Per esempio, come noto, una soluzione vaccinale è costituita da una combinazione di diversi elementi: una proteina che funge da antigene per determinare la reazione immunitaria, un sistema di somministrazione e diffusione nel corpo, e poi una serie di adiuvanti che ne completano o ne aumentano l’azione e l’efficacia. A cui va aggiunto, in termini di filiera, pure il comparto di ricerca e sviluppo, il sistema di conduzione dei test sperimentali e l’impianto di produzione del vaccino su larga scala.
Naturalmente ogni impresa farmaceutica, con la propria costellazione di affiliati, ha una serie di risorse che tiene per sé in esclusiva, e sulle quali punta per arrivare al risultato. L’inghippo è dunque presto trovato: è assai improbabile, per non dire impossibile, che una singola azienda detenga la migliore delle soluzioni per ciascuno degli elementi necessari alla realizzazione di un vaccino. Chi individua l’antigene più efficace potrebbe non avere gli adiuvanti più performanti, oppure potrebbe avere entrambe le cose ma essere carente sulla parte di produzione delle dosi. L’unione delle forze, invece, permetterebbe di avere il meglio per ciascun anello della catena.
Il concetto è ancora più evidente se si entra nel merito della parte di ricerca e sviluppo. La corsa concorrenziale ad accaparrarsi i migliori cervelli, infatti, fa sì che le risorse umane più qualificate non siano al lavoro intorno a uno stesso tavolo, ma anzi siano in competizione l’una con l’altra e vincolate al mantenimento del segreto industriale, privandosi anche dell’elemento essenziale al progresso scientifico: la condivisione reciproca delle conoscenze. E ciò non vale solo nelle grandi compagnie, ma pure per le piccole realtà e i centri di ricerca accademici. Dato che solo chi controlla l’intera filiera può effettivamente entrare nella competizione, l’unico modo che hanno startup e università di gettarsi nella mischia è affiliarsi a uno dei big, entrando di fatto nella medesima logica competitiva e concorrenziale.
Un vaccino mediocre
L’effetto complessivo di questa dinamica, secondo molti analisti, sarà l’arrivo sul mercato di un vaccino qualitativamente inferiore rispetto a ciò che si sarebbe potuto ottenere. A tutti gli aspetti già menzionati, peraltro, si aggiunge l’iter stesso di approvazione vaccinale. Dovendosi districare tra sperimentazioni di fase 1, di fase 2 e di fase 3, tra trafile di approvazione e autorizzazioni varie, il rischio è che ci si focalizzi più sulla burocrazia e sulle scorciatoie per accelerare i tempi che non sulla qualità del prodotto finale immesso sul mercato.
L’obiettivo de facto della corsa al vaccino è infatti arrivare per primi al traguardo dell’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) statunitense o della European Medical Agency (EMA). Un traguardo che da un lato dà garanzie in termini di sicurezza e di una certa efficacia, ma che non coincide affatto con il far prevalere la soluzione ottimale. In altri termini, il primo vaccino a essere distribuito su larga scala sarà semplicemente il primo vaccino funzionante, ma non è detto sia il più funzionante in assoluto né quello capace di dare i migliori benefici in termini di salute pubblica.
Per come il processo regolatorio stesso è strutturato, infatti, le agenzie governative sono chiamate a dare un parere e un’approvazione sulla singola soluzione vaccinale, senza tenere conto del fatto che altri candidati, magari più promettenti in termini di efficacia o meno costosi quando si passa alla produzione su larga scala, potrebbero arrivare di lì a poco. Almeno nella prima generazione, è quindi probabile che i vaccini contro il virus Sars-Cov-2 che avremo a disposizione saranno appena sufficienti per superare i test di approvazione, più che eccellenti in termini di efficacia.
La corsa delle corse
Valutare la competizione per il vaccino solo sulla base della concorrenza tra grandi aziende del settore sarebbe riduttivo. La questione, infatti, ha molto a che fare con l’assetto e gli equilibri geopolitici mondiali. Gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra (con l’Europa a fare da terzo polo) vedono nella messa a punto di una propria opzione vaccinale un possibile vantaggio competitivo. Ecco perché anche gli Stati stessi, e non solo le società private, hanno massicciamente investito in ricerca e sviluppo, portando probabilmente le agenzie di salute pubblica – a parità di tutti gli altri parametri – a preferire i prodotti fatti in casa rispetto a quelli di manifattura estera.
Visto in un’ottica globale, questo processo si tradurrà inevitabilmente in un enorme spreco di risorse. Interi filoni di lavoro rimarranno binari ciechi e termineranno con un nulla di fatto, semplicemente per non essere arrivati primi. Persino alcune conoscenze scientifiche acquisite potrebbero non arrivare mai a trovare concretezza nelle soluzioni vaccinali, e anche i costi di produzione e di conseguenza delle dosi da somministrare – una volta che queste ultime saranno concentrate nelle mani di uno o pochissimi player – saranno più alti di quelli ottenibili con una logica collaborativa. Seppur complessivamente sicura, infine, la soluzione scelta per la produzione su larga scala potrebbe non essere quella che effettivamente minimizza i rischi.
Difficile formulare una proposta alternativa al modello attuale, e forse impossibile applicarla a corsa già abbondantemente avviata. Qualcuno, per esempio, suggerisce un più importante intervento del settore pubblico, che gestisca le risorse e coordini gli sforzi, indicando la via da percorrere. Una linea che, oltre al coordinamento tra gli Stati, ha come premessa necessaria il considerare il vaccino contro la Covid-19 come un elemento decisivo in termini di salute pubblica, e dunque come un bene condiviso e universale anziché un prodotto brevettato da una singola azienda. E che richiederebbe pure che lo stesso processo di ricerca e sviluppo sia condotto con una logica open access, a cui le stesse agenzie regolatorie dovrebbero adattarsi modificando le procedure interne. Vale a dire, in tempo di emergenza, di accorciare i tempi non derogando ad alcune delle regole, bensì sfruttando l’accelerazione indotta dalla collaborazione stessa.