Forse in italiano più che ‘scrum’ sarebbe corretto chiamarlo a mischia ordinata, ma d’altra parte pure il più celebre lavoro agile spesso viene pronunciato a·jail, quindi evidentemente l’inglesismo fa parte del gioco. L’importante è la sostanza: con il termine scrum si intende un metodo e una filosofia di organizzazione del lavoro che vuole prendere spunto dal gioco di squadra tipico del rugby per migliorare il modo di operare in azienda, a maggior ragione in un momento storico in cui si è ormai consolidata la prassi di sostituire parte degli incontri in presenza fisica con alternative digitali.
Si tratta, naturalmente, di una metafora. Nel rugby si parla di scrum quando il gioco viene interrotto e deve riprendere dopo una qualche irregolarità. Nella mischia chiusa e ordinata che viene organizzata per la ripresa del gioco, ciascuna squadra deve riconquistare il possesso del pallone, e l’esito finale non può che dipendere dalla capacità di ciascuno dei due schieramenti di collaborare e coordinarsi, definendo e rispettando i differenti ruoli, ma anche creando proficue interazioni interne.
Fuori di metafora, scrum è una variante della già citata metodologia agile, teorizzata da uno degli ideatori di quest’ultima – Jeff Sutherland – e creata insieme allo sviluppatore software statunitense Ken Schwaber. Non a caso, trova applicazione anzitutto nelle aziende che si occupano di servizi e soluzioni digitali, dove l’approccio industriale con un capo che controlla e dirige i sottoposti risulta particolarmente inefficace. Anche se di lavoro agile si discute da quasi vent’anni (il manifesto fu redatto nel febbraio 2001), di metodologia scrum si è iniziato a parlare solo più di recente, e l’arrivo della pandemia con la diffusione dello smartworking sembra aver focalizzato ancor più l’attenzione su questo approccio.
In termini generali, e forse un po’ generici, scrum e lavoro agile indicano anzitutto caratteristiche quali la capacità di adattare i flussi di lavoro a un contesto di costante cambiamento, il mettere le interazioni e i confronti tra le persone più in alto nella gerarchia rispetto agli strumenti specifici, il puntare più sulla collaborazione e sul dialogo rispetto ai vincoli contrattuali, il concentrarsi più sulla funzionalità dei prodotti che sulla documentazione tecnica e amministrativa, e naturalmente l’essere veloci e snelli nell’organizzazione. Scendendo nello specifico, lo scrum prevede un movimento coordinato tra tutti i membri del team di lavoro, che ha come parole d’ordine comunicazione, fiducia, trasparenza, condivisione della responsabilità e impegno distribuito.
Da un punto di vista pratico, la peculiarità fondamentale del metodo è la continua riunione dei lavoratori, che organizzano la routine quotidiana con un impianto ciclico, all’interno del quale come in un sistema di matrioske si individuano attività e obiettivi via via più piccoli e specifici. Di importanza fondamentale è anche l’interazione frequente con gli stakeholder, che devono sempre restare aggiornati (e possibilmente soddisfatti) sui progressi fatti.
In gergo, ogni macro-blocco di lavoro viene chiamato sprint, della durata indicativa di un paio di settimane. All’inizio della lavorazione del blocco viene indetta una riunione chiamata sprint planning, e al termine un altro momento detto sprint review, che anticipa l’incontro con il cliente. A tutto ciò si aggiunge un incontro quotidiano (detto daily) lungo al massimo un quarto d’ora, per fare il punto sul da farsi e sullo stato dell’opera. E trasversale a tutti gli incontri è il cosiddetto backlog refinement, ossia in sostanza un momento in cui si sottolineano fallimenti e successi, in modo da capire cosa mantenere e cosa cambiare.
Infine, all’interno del gruppo di lavoro vengono individuati alcuni ruoli chiave, che però non sono da intendersi in chiave gerarchica. Lo scrum master – più un facilitatore che un manager di progetto in senso classico – lavora per eliminare gli ostacoli che rallentano il processo di lavoro, togliendo tutte quelle barriere che si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo finale. Al contempo, vigila in modo informale sul rispetto generale dei requisiti del metodo. C’è poi il product owner, l’anello di contatto tra gruppo di lavoro, clienti e stakeholder, che si occupa di tradurre in fatti concreti le richieste dei committenti, e viceversa condivide all’esterno del team lo stato di progresso dei lavori. Il grosso del gruppo costituisce il cosiddetto scrum team, che per le applicazioni informatiche si suggerisce sia composto da un minimo di 3 a un massimo di una decina di componenti, il quale di fatto è l’esecutore materiale degli sprint. Infine, fuori dal gruppo di lavoro c’è la figura dello stakeholder, una persona specifica che rappresenta il committente (interno o esterno all’azienda) e si occupa di chiarire al product owner i desiderata di progetto.
Nella versione pre-pandemia del metodo scrum, i due elementi essenziali per la realizzazione pratica dell’approccio erano una sala in cui potersi fisicamente riunire e una tabella (di solito scritta su una lavagna fisica, detta scrum board o kanban, dal giapponese insegna) su cui indicare schematicamente obiettivi, progressi, ostacoli e feedback. Una sorta di file di log del processo di lavoro, quotidianamente aggiornato. Naturalmente, la rivisitazione in chiave smartworking del metodo prevede la sostituzione di entrambi questi elementi.
Tutto ciò fa vacillare uno dei pilastri fondanti, ossia che sia più importante focalizzarsi sulle interazioni che sugli strumenti per eseguirle, dato che l’uso di una piattaforma o di un’altra può fare davvero la differenza. Per questo motivo negli ultimi mesi sono state sperimentate diverse modalità digitali dell’interazione scrum, che spaziano dalle classiche piattaforme di videochiamata di gruppo (Zoom, Teams, Meet,…) fino ad applicazioni che riproducono la kanban in formato digitale e sistemi per la messaggistica istantanea di gruppo organizzati per argomenti.
Ancora più importante, dicono gli esperti del metodo, è trovare un valido modo per riprodurre anche a distanza tutte quelle dinamiche di interazione spontanea e di team building che lo smartworking potrebbe annullare. Ecco perché una delle proposte è quella di creare una stanza digitale (in videochiamata) attiva 24 ore su 24, dove tutto il gruppo di lavoro possa recarsi in qualunque momento per scambiare due chiacchiere, come se fosse in pausa caffè. Va da sé, però, che ripristinare un minimo di interazione faccia a faccia non possa che giovare. Altrimenti sarebbe come pretendere di allenare una squadra di rugby senza mai riunire i giocatori sul campo.