Che la pandemia abbia colpito in modo significativo il lavoro femminile gli esperti lo dicono da diversi mesi. Vale però la pena ribadire come questa crisi abbia travolto un’Italia già pesantemente in affanno sul fronte del lavoro delle donne. Siamo un Paese con bassi tassi di occupazione femminile, scarse politiche di conciliazione lavoro-famiglia e stereotipi di genere diffusi. Un Paese dove la divisione del lavoro in famiglia in base al genere è ancora asimmetrica anche se in (lenta) evoluzione. Basta guardare ai numeri per capire quanto sia necessaria un’inversione di tendenza. Ad oggi solo una donna su due lavora e sono in aumento le dimissioni delle neo-mamme. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro sono state 37.611 le neomamme che si sono dimesse nel corso del 2019, in aumento rispetto alle 35.963 dell’anno precedente. Non a caso l’ultimo report di Save the Children definisce “equilibriste” le mamme lavoratrici, che a causa della pandemia hanno visto aumentare carico di lavoro e difficoltà.
“Il grande tema – spiega Paola Profeta, docente all’Università Bocconi di Milano ed esperta di questioni di genere – è quello della conciliazione. Nei prossimi mesi rischiamo di veder peggiorare questi numeri. Soprattutto perché la crisi è andata a incidere su settori diversi rispetto a quella finanziaria del 2008. Penso al turismo, alla ristorazione, al commercio dove le donne sono presenti in quota importante”. Lo ‘tsunami’ Covid-19 ha poi colpito le forme contrattuali tipiche del lavoro femminile, dal part time ai lavori a tempo determinato. “Le donne – incalza Profeta – sono soggetti fragili del mercato del lavoro. Durante la crisi il 60% delle ore di cassa integrazione è stato destinato proprio alle lavoratrici e non sempre lo smart working ha significato conciliazione”. In alcuni casi per le donne lavorare da casa si è tradotto in un aumento del carico lavorativo. Il rapporto di Save The children parla di carichi di lavoro domestico aumentati per il 74% delle intervistate, di una situazione peggiorata per 3 milioni di lavoratrici con almeno un figlio minore di 15 anni, circa il 30% delle occupate totali (9 milioni e 872 mila).
Esistono però anche dei casi positivi che potrebbero essere presi come esempio. “A voler guardare il bicchiere mezzo pieno – aggiunge Profeta – va anche detto che siamo in una fase di transizione verso nuove forme di lavoro e organizzazione in azienda. Ci sono casi documentati in cui lo smart working ha comportato una maggior presenza maschile nel lavoro domestico, a beneficio di tutta la famiglia. Andrebbero normalizzati”.
Cosa fare quindi di più? Secondo la docente è strategico promuovere politiche mirate e favorire la conciliazione senza perdere il treno del Recovery Fund europeo. “Si tratta di risorse importanti che devono essere scaricate a terra e utilizzate per portare sempre più donne nel mercato del lavoro. È una questione cruciale per la ripartenza economica di tutto il Paese”, conclude. Più lavoratrici per vincere la sfida della crescita che, ricordiamolo, non ha genere.