Nella relazione contemporanea tra marchio e consumatore il mondo appare molto più complesso del passato. E la palette di colori si arricchisce sempre di nuove sfumature. Questo certamente è un bene. Perché in fondo ogni consumatore può appropriarsi di una propria specifica esperienza di navigazione, sia essa virtuale o reale, arrivando a personalizzarla. In fondo è la dimostrazione plastica di come ogni brand possa calarsi sulle specifiche esigenze di un cliente connesso. Forse anche per questa nuova sensibilità ha fatto il giro del mondo – e ovviamente dei social – l’idea geniale promossa da Volvo. I ricercatori della casa automobilistica svedese hanno deciso prima di altri di declinare al femminile la sicurezza su strada. E quindi hanno puntato su un nome di donna. Il progetto si chiama Eva, che ha tanti richiami nel passato, ma che può essere anche spacchettato come acronimo ed esplicitato in equal vehicle for all. Ovvero veicoli uguali per tutti. Eva nasce da un bisogno concreto. Il manichino medio per i crash test, ovvero per le prove di impatto degli incidenti automobilistici, da sempre è stato un uomo di corporatura media. E così fino ad ora le donne sono state esposte a rischi maggiori. Con Eva i tecnici Volvo hanno sviluppato dispositivi per proteggere tutte le persone, indipendentemente dal sesso, dall’altezza, dalla corporatura o dal peso.
Non è un caso isolato. Oggi sono sempre di più i brand – grandi e piccoli – che decidono di proporre prodotti, servizi, soluzioni, idee customizzate per specifici pubblici. Ci ha pensato addirittura un ospedale americano, che ha fatto realizzare ad un team di innovatori un’anatra specialissima, sia perché hi-tech e sia perché il frutto dell’ascolto dei piccoli pazienti. Si tratta di uno speciale robot per i giovani degenti ospedalieri oncologici, realizzato dopo diciotto mesi di progettazione partendo proprio dai bisogni dei bambini. Obiettivo: farli sorridere durante i lunghi periodi in ospedale. Così è nata My Special Aflac Duck, sviluppata dalla Fondazione Aflac, compagnia assicurativa americana impegnata nel sostenere le coperture per famiglie in difficoltà e con bambini con diagnosi di cancro.
Il design così ascolta, aiuta, aggrega. Perché consente di mettersi nei panni degli utenti. Ma di tutti, nessuno escluso. La sfida è ripensare il servizio con modelli integrati e la relazione tra cliente e brand: dalla navigazione su un motore di ricerca alla visita in negozio, dall’utilizzo dei social alla chiamata al contact center, fino all’e-commerce. Per farlo occorre capire come la gente interagisce nella vita quotidiana, disegnando oggetti e servizi su misura: solo così si arriva alla co-creazione del futuro. “Da cosa partire per ripensare un prodotto? Da come le persone vivono nella quotidianità. Oggi grazie alle tecnologie digitali si può invitare il cliente e tutta la filiera a partecipare a questo processo. La creatività passa attraverso un processo che abbraccia clienti, venditori e persino competitor che possono creare insieme nuovi prodotti”, mi ha raccontato qualche mese fa Simona Maschi, a capo dell’Institute of Interaction Design di Copenaghen. Col suo gruppo Maschi ha ripensato l’esperienza dei pazienti nell’ospedale di Rotterdam partendo dal soffitto, cioè da quello spazio che le persone ricoverate vedono per tutto il giorno. Ma l’istituto lavora con brand del calibro di Toyota, Lego, Mozilla.
Ma allora tutto questo cos’è? Marketing, design, comunicazione, impegno sociale? O tutte queste cose messe assieme? In fondo le nuove frontiere della responsabilità della marca – ambientale e sociale – passano anche da questa nuova consapevolezza, che si coltiva in una terra professionale di mezzo. Per mettere in piedi progetti di questo tipo occorre tanta competenza anche verticale, certamente. Ma c’è un elemento che più di altri fa la differenza in termini reputazionali e di business. Ed è l’ascolto.