Ancora due mesi di divieto dei licenziamenti. La fine del lungo periodo, in cui si è doverosamente anestetizzato il nostro sistema produttivo, sembra lontano, ma sarebbe il caso di metterci mano da subito. Prima di affrontare dall’oggi al domani e ancora in piena pandemia le conseguenze dirette e indirette dell’uragano-Covid.
A proposito di queste ultime, in molti si sono domandati che cosa accadrà fra lo scorcio conclusivo di questo complicatissimo 2020 e l’inizio del 2021. C’è chi teme una tempesta di licenziamenti, sulla spinta dei gravi colpi già subiti dai lavoratori a tempo determinato. Altri escludono conseguenze catastrofiche, anche senza negare un inevitabile impatto in termini occupazionali. Il ragionamento, a ben vedere, rischia di essere ozioso: il punto non è interrogarsi su quanti posti di lavoro avremo perso a fine anno o nel primo trimestre del prossimo, ma chiedersi – ora, non fra un anno – quanti ne potremo recuperare nel giro di pochi mesi. Ancora più importante, cosa dovremmo fare per sfuggire a un’emorragia del lavoro, in questa lunga e complessa fase di convivenza con la pandemia. E qui, l’emergenza pesa tantissimo, ma non è l’unica matrice. Anzi. La crisi non fa che emergere tutte le deficienze strutturali del nostro sistema economico.
Comunque la si veda, è troppo elevato il numero di imprese arrivato gravemente impreparato al cospetto del più classico dei cigni neri, come si è dimostrato il coronavirus. Possiamo prendercela con il destino cinico e baro, ma resta una verità inconfutabile, quella di un paese profondamente diviso. Da una parte, l’Italia appesantita dai suoi ritardi cronici, da una mentalità da XX secolo, in cui il lavoro è ancora interpretato come contrapposizione, e un’altra velocissima, impetuosa, già in piena ripresa.
Un’Italia post-Covid, mentre il paese è ancora alle prese con le conseguenze dirette della pandemia. Un piccolo miracolo, certificato anche dai dati di produzione di agosto. Mese per definizione estremamente particolare e da non prendere come oro colato, ma in cui comunque l’Italia ha mostrato segni di ripresa e di vitalità ben superiori, rispetto alla Francia o alla Germania. Un fatto, che ricorda quanto sia forte e sorprendente quel pezzo di paese che produce, senza perdere tempo e aspettarsi granché dal “sistema”.
Bello, per carità, ma senza che funzioni il “sistema”, non reggeremo a lungo il peso di quell’altra Italia e soprattutto correremo un rischio capitale: sprecare l’occasione unica e irripetibile dei prossimi mesi, quando dovremo attrezzarci per il Next Generation EU e il Recovery Fund. La sfida è oggi, non fra un po’. Dovremo imporci di programmare subito ed esclusivamente riforme e spese, per aiutare l’Italia che produce e compete, a livello globale. Non possiamo permetterci di usare anche solo una parte dei fondi europei in arrivo, per alimentare la maledizione degli eterni sussidi e per tenere in piedi chi non merita di andare avanti.
Il futuro prossimo, non quello fra vent’anni, sarà spietato con chi continuerà a ripetere sempre gli stessi errori. Abbiamo esaurito i bonus, è il caso di dire. Possiamo sostenere la migliore Italia e un’occasione del genere non capiterà più. Semplice. Farlo o non farlo è solo una nostra scelta. Se avremo la forza di privilegiare il sistema economico sano, l’Italia spiccherà il volo. Perché la parte di noi che ha già scelto di puntare sui propri talenti, senza affidarsi all’assistenzialismo, senza sognare solo la pensione, ha mostrato a sé stessa e al mondo di non temere rivali. Non sarà un percorso indolore ed è inevitabile che delle aziende, sorde al cambiamento e soprattutto alla valorizzazione del capitale umano, finiscano per essere espulse dal mercato. Nostra ossessione deve essere tutelare le professionalità ed esaltare il talento, chi li soffoca non merita di essere sostenuto con i soldi dei contribuenti. Anche se si dovesse chiamare Alitalia, per essere molto chiari.