Per rendere meno spiacevole una metafora che in inglese funziona meglio che in italiano, immaginate di accoppiare l’emoji del temporale con quello della cacchina che ride. Ecco, shitstorm vuol dire esattamente questo. In generale, nella vita lavorativa, uno shitstorm è la tempesta perfetta che si addensa sulle nostre teste e che ci travolge a sorpresa come l’esplosione di un candelotto di dinamite in mano a Willy il coyote.
È nell’ecosistema dei social network che questa parola rivela a pieno il suo rovinoso significato. Lo shitstorm è l’incubo di qualunque social media manager: è l’effetto valanga di quel tweet sbagliato, quel post di troppo che scatena l’inferno. Un social media manager impara sulla propria pelle che non può essere simpatico o disinvolto come ogni tanto il mezzo che usa gli suggerirebbe di essere. C’è una linea sottile, sui social come nella vita, che divide la “simpatica verve” dal baratro dell’ignominia. Ogni tanto capita che lo shitstorm non sia causato da un post del social media manager di turno ma dal commento negativo di un utente che si trasforma in una valanga incontrollata di retweet, di hashtag e di menzioni.
Come si gestisce uno shitstorm? In Italia va di moda dire che la gente si offende per un nonnulla e che, signora mia, ormai non si può più dire niente. In realtà non offendere è più facile di quello che sembra: basta evitare di twittare/postare/commentare cose potenzialmente offensive o discutibili ma che magari si reputano accettabili o perfino divertenti nel proprio giro di amici. E poi quando lo shitstorm arriva conviene fare come Ulisse e legarsi all’albero maestro con le orecchie tappate per non farsi trascinare nel gorgo della polemica. Se invece si è palesemente nel torto, chiedere scusa può rivelarsi una strategia vincente. Attenzione, però: chiedere scusa non significa dire “mi hanno hackerato l’account” o, peggio, “è stato lo stagista”. Scuse del genere finiscono solo per creare un altro shitstorm ancora più furioso del precedente.