Nel dibattito attuale, tra entusiasti del nuovo corso dello smart working e nostalgici del tempo passato e delle lunghe ore in ufficio, spesso improduttive, si inserisce Ibm dove già da diverso tempo è in atto una trasformazione per bilanciare il tempo trascorso a casa con quello in sede. Lo racconta il general manager di Ibm, Enrico Cereda, che spiega come l’arrivo della pandemia da Covid-19 non abbia colto il colosso digitale impreparato.
“Abbiamo da tempo una cultura aziendale che considerava pienamente paritario il raggiungimento degli obbiettivi anche attraverso il lavoro da remoto. Nessuno dei nostri 5mila dipendenti ha una postazione fissa” racconta Cereda, che continua: “Usiamo il portatile, lo smartphone e software come Webex per le chiamate di gruppo. E questo avviene da anni. Il 6-7 marzo abbiamo impostato il lavoro prima ancora del lockdown: domenica 8 marzo abbiamo mandato una mail per dare indicazione di lavorare tutti da remoto. Quindi, di fatto, abbiamo avuto un impatto trascurabile”. Ma un conto sono i gruppi come Ibm, altro conto sono le aziende magari più piccole. Infatti così non è stato per alcune aziende partner, che hanno fatto lavoro da remoto usando procedure datate. Ad esempio, in alcuni casi, non era presente la firma digitale. Spiega Cereda: “Nei prossimi mesi uno dei pochi effetti positivi della pandemia potrebbe essere la realizzazione di uno smart working che non sia a metà. Ma abbiamo registrato anche la crescita dell’e-commerce: il Covid-19 ha impresso una grande accelerazione all’innovazione”.
Un’altra sfida da affrontare nel futuro del lavoro è quella dello skill mismatch. L’opinione di Cereda è che si tratti di una delle priorità del nostro Paese “insieme con la riforma della pubblica amministrazione e la progettazione di una strategia industriale nazionale”. Argomenta questo suo giudizio dicendo che “non si tratta solo di scuola o dell’università per i ragazzi ma della formazione continua che il lavoratore deve continuare ad avere nel corso della sua vita lavorativa”. Per quello l’anno scorso a settembre è stato inaugurato P-Tech, un progetto nato negli Stati Uniti per collegare insieme scuola, università e lavoro. La scelta della città pilota è caduta su Taranto, per puntare su un’area economicamente stagnante, ed inizia con i ragazzi delle terze classi delle scuole superiori per accompagnarli in sei anni di formazione altamente specializzata. Ci sono anche sostenitori sia universitari oltre che privati: “Abbiamo scelto sia partner corporate, come Intesa Sanpaolo, Enel e il gruppo Angel di Vito Pertosa, sia accademici, come il Politecnico di Bari. Abbiamo cercato di unire aziende ed università”. Durante la pandemia le piccole e medie imprese hanno sofferto più di altri e sono la stragrande maggioranza del tessuto economico italiano. Così Ibm ha ideato una nuova piattaforma digitale dedicata a loro, in collaborazione con il gruppo Manpower e altri grandi gruppi economici, tra cui Intesa Sanpaolo e la Fondazione Human Age Institute.
Si chiama SkillsBuild Reignite ed è un piano di aggiornamento per le imprese di piccole e medie dimensioni che comprende sulla piattaforma omonima 180 webinar sui temi del digitale e circa 200 corsi di aggiornamento professionale per portar loro la cultura dei nuovi strumenti digitali. Un portale dedicato alla trasformazione di quelle aziende che hanno bisogno di far ripartire la crescita del nostro Paese. Per quanto riguarda il tema dello smart working, negli scorsi mesi è infuriato il dibattito tra chi lo vorrebbe come forma esclusiva e per chi invece ha un’idea nostalgica del lavoro di una volta. Per Cereda si può fare diversamente, e lo fa partendo da un esempio. “Le racconto una mia esperienza lavorativa precedente: lavoravo presso un grande gruppo bancario, quando entravo in ritardo anche di un solo minuto dovevo compilare un modulo e farmelo controfirmare da diverse persone, perdendo molto più tempo. In Ibm invece già nel 1996 quando sono entrato le persone arrivavano liberamente senza cartellini ed orari prestabiliti”.
Abbiamo chiesto anche a Cereda come abbia vissuto personalmente il lavoro in lockdown. Se mantenendo una tabella di marcia o allungando gli orari di lavoro. Ecco la sua risposta:
“Nonostante mi senta un po’ old style, mi sono trovato bene a fare smart working e ho svolto bene il mio compito anche in mesi impegnativi e terribili. Anche se l’orario delle call durava molto di più. Non continuerà sempre così, come adesso che abbiamo il 90% del personale a casa e sicuramente potrà restarci fino a fine anno. Quando si tratta di mandare mail è un’operazione che si può fare da casa, ma quando c’è da svolgere una riunione, presentare la propria idea ed esercitare le proprie soft skills oppure incontrare un cliente allora si rende necessaria la riunione in presenza. Cambieranno gli uffici in modo irreversibile. E diventeranno un luogo più di incontro che di lavoro. In quest’ottica abbiamo pensato i nostri Ibm Studios in piazza Gae Aulenti a Milano, inaugurati nel giugno 2019. E siamo stati lungimiranti” conclude.
Un ultimo pensiero riguarda il concetto di lavoro, da esprimere in una parola. Cereda sintetizza così: “Per me è sempre stato divertimento. Dato che gran parte della nostra vita la passiamo lavorando, questo è fondamentale. Senza un lavoro con cui divertirsi la vita è più difficile”.