La TV oggi si fa da casa

Entrare a casa di Giuseppe De Bellis è come immergersi in una specie di museo in cui i giornali – di ogni forma, contenuto, anno e Paese – interpretano essi stessi il ruolo di opere d’arte, oggetti di design e pezzi da collezione. «Guarda cosa mi è appena arrivato» mi dice all’ingresso, mentre apre una grande busta rettangolare. Dentro ci sono due copie del numero del The New York Times che più ha fatto parlare di sé duramente il lockdown, quello del 24 maggio 2020 con la copertina elogio alle vittime del Covid-19 (e alle loro storie). «Una pensavo di farla incorniciare, l’altra la conserverò». Ed è proprio da questa casa-museo dell’informazione che Giuseppe ha gestito la rete di cui è Direttore dal gennaio del 2019 durante tutto il periodo di lockdown, ma non solo.

Come è stato fare la tv da casa?

Difficile. Perché non credevamo di poterlo fare, ma poi l’impossibile è diventato possibile. Senza il Covid-19 non avevamo pensato neanche lontanamente di poterci riuscire. Io arrivo dai giornali e quando sono approdato nel mondo televisivo mi sono reso conto di quanto la struttura e l’infra­struttura siano rilevanti per il contenuto che fai. Quindi tu non sei più solo quello che dici, ma sei anche il luogo in cui le cose accadono.

Che cosa resterà seconde te di questa esperienza?

Sicuramente la flessibilità. In un mondo estremamente rigido come quello dell’informazione televisiva, aver dimostrato la capacità di essere flessibili rappresenta una grandissima case history.

In generale credi che la digitalizzazione del giornalismo abbia subito un’accelerazione?

Decisamente sì. Durante il lockdown girava una battuta: la trasformazione digitale l’hanno fatta i Chief Innovation Officer, gli Amministratori Delegati, o Covid-19? L’ha fatta Covid-19. La spinta estrema verso la digitalizzazione è arrivata per un fattore totalmente esterno.

Tu personalmente come l’hai vissuta? Sei una persona che viaggia molto e soprattutto fa un lavoro per il quale la presenza sul posto è importante.

Io l’ho vissuta male soprattutto all’inizio quando è scattato anche per noi l’obbligo di lockdown mentre, in quanto azienda di pubblica utilità, sapevamo di poter continuare a lavorare anche durante il lockdown. Ma l’abbiamo fatto perché abbiamo avuto un contagio interno, e siccome era un mio strettissimo collaboratore ho vissuto con l’incubo di essere contagiato. La cosa più difficile nei primi giorni per tutti noi, 70 persone in quarantena forzata, era di dover fare una cosa totalmente nuova da casa, perché i nostri uffici erano chiusi, dovendoci occupare per 18 ore al giorno di un unico argomento, che era anche l’argomento che ci angosciava personalmente. La vera novità dal punto di vista giornalistico è stata proprio che questa non è una notizia che tu vivi dall’esterno. Se noi pensiamo alla più grande tragedia che abbiamo vissuto negli ultimi anni, l’attacco alle Torri Gemelle, o, per chi li ha vissuti, i terremoti, innanzitutto si tratta di notizie tradizionali: esistono da sempre, per cui l’interpretazione che i giornalisti ne danno, specie quelli che fanno informazione minuto per minuto, è abbastanza rituale, cioè ci sono dei codici che si ripetono e che sei abituato a dover utilizzare. Tu quindi hai la capacità di estraniarti dalla notizia e di guardarla dall’esterno. Questa volta non è stato così. Noi eravamo immersi nella storia che stavamo raccontando, una storia che riguardava tutti: chi stava in redazione, chi stava a casa, chi stava in giro, per cui l’esperienza è stata realmente totalizzante.

Hai mai pensato: il mio lavoro non tornerà mai più come prima?

Sì e secondo me non tornerà mai più come prima. Nel senso che le decisioni che prendiamo oggi sono tutte mediate dalle conseguenze economiche di quello che è accaduto e poi an­che sulla certezza che le misure sanitarie che saranno prese in futuro non saranno identiche a quelle del passato. Per esempio, io so già che quando arriveranno gli ospiti li dovrò far entrare in un certo modo, potrò avere una rotazione degli ospiti inferiore rispetto al passato, insomma una serie di va­riabili che già mi condizionano. In più ci siamo scelti una modalità lavorativa nuova per chi fa informazione 24 ore su 24, che è quella di basare l’organizzazione del lavoro comunque sullo smart working. Per cui la trasformazione ce la stiamo anche auto-imponendo, non è una trasformazione subita.

Hai sempre creduto nello smart working?

Sì e paradossalmente questo è il momento in cui ci credo di meno. Io credo moltissimo nella capacità del singolo lavo­ratore di auto regolarsi, cosa che parte da due presupposti: uno è la professionalità e l’altro è il piacere di fare quello che fai, che può essere anche soltanto la necessità di guadagnarsi uno stipendio.

Credi che, generalmente, non solo nel giorna­lismo, il valore che ognuno di noi darà al proprio lavoro dopo questa esperienza cambierà? Intendo dire: magari chi ci credeva poco ora ci crede di più, o chi faceva un lavoro ha capito che quel lavoro era inutile e quindi dovrà reinventarsi.

Bella domanda, non ci avevo mai pensato onestamente. Sicuramente c’è un processo di relativizzazione. È più facile che chi viveva per il lavoro abbia capito che il bilanciamento vita familiare-lavoro sia più importante di quello che pensava, rispetto al fatto che chi invece non dava il massimo possa oggi dare il massimo. Secondo me quest’ultima categoria prescinde dallo smart working. Penso anche che conquistare la consapevolezza che ci sia un equilibrio tra quello che fai al lavoro e quello che fai nella tua vita privata non sia necessariamente un passo indietro rispetto alla grinta con cui tu fai il tuo lavoro. Vivere per il lavoro è un errore.

Nel corso della tua trasmissione Idee per il dopo, il tema del lavoro è stato spesso centrale. Hai chiesto ai tuoi ospiti cosa significhi per loro questo “New Normal” in una parola, e lo smart working (o meglio, il remote working) è stato citato più volte. Ma quanto conta la città (o il borgo) da cui si lavora?

Io sono convinto che il luogo in cui lavori, inteso come la città che ti ospita, sia totalmente collegato con il lavoro che fai e con il risultato che ottieni. Uno può lavorare anche alle Barbados, visto che hanno recentemente offerto il visto a chi va a fare smart working da lì, ma deve sapere che è una pa­rentesi. Lavorare a Milano o lavorare a Roma non è la stessa cosa, lavorare a Bari o lavorare a New York non è la stessa cosa, anche se il tuo lavoro puoi svolgerlo in modalità smart. Gli uffici e le case possono essere dei non-luoghi in cui tu svolgi la tua professione ma il tuo lavoro, cioè quello che sei in quanto lavoratore, è influenzato moltissimo dall’ambiente in cui vivi.

Cosa consiglieresti ad un ragazzo che oggi volesse studiare giornalismo? Lo consiglieresti ai tuoi figli?

Ogni tanto chiedo loro cosa vogliono fare da grandi. Se potessi scegliere io, vorrei che uno facesse l’architetto, per quanto amo il settore. Uno dice che vuole fare il calciatore, e in subordine il rapper o il tiktoker (ride, nda).

A parte le battute, io ho cominciato a fare questo lavoro quando già si diceva che non c’era futuro per questo mestiere. Non solo non è vero, ma non sarà mai vero. Ci sarà un modo di fare giornalismo totalmente diverso rispetto a quando mi dicevano che non c’era nessuno spazio per farlo. E a dirmelo era una categoria chiusa, che non voleva ragazzi giovani che si intromettessero nel suo mondo.

Sarà un lavoro molto meno stabile di quanto era in passato e di quanto è oggi. Molto più basato su delle capacità individuali, cioè ci saranno molti più giornalisti imprenditori di se stessi, consapevoli che è fondamentale avere uno sguardo di insieme, e specializzati in qualcosa senza però cadere nella trappola dell’iper-specializzazione. Lo consiglierei sempre, anche ai miei figli, è un mestiere stupendo.

Qual è il rapporto tra giornalismo e brand oggi?

La vera differenza rispetto al passato è che c’è un rapporto. Un rapporto molto stretto. Oggi si è capito che esiste la possibilità di fare un intrattenimento giornalistico in partnership con i brand senza che questo venga vissuto dal pubblico come un valore negativo della testata. In passato questa paura (insensata) ha fatto sì che si giocasse sull’equivoco mentre oggi si comunica apertamente quando c’è un interesse economico. Si è consapevoli del fatto che quello è il punto di vista di qualcuno che ha un interesse. Le scale di interazione tra i brand e le testate sono molteplici e ciascu­na può andare bene, l’importante è giocare sempre a carte scoperte.

LINC è un brand magazine e si basa proprio su questo discorso: io ti dichiaro fin dall’inizio che il mio editore è un’azienda e che il suo scopo è fare cultura intorno ad un tema specifico. Questo paradossalmente lo rende ancora più libero di fare certe scelte.

Esatto. Il confine sta nell’intelligenza del brand che fa un’operazione come questa: se capisce che un magazine non è un manifesto pubblicitario, né una brochure, ma appunto un magazine, per cui deve parlare di contenuti che siano sufficientemente larghi da interessare non soltanto i suoi ma­nager, ma una più ampia fetta di lettori, e se accetta che in quei contenuti esistano delle cose scomode, non totalmente allineate con il suo punto di vista e la sua strategia di business… allora nasce qualcosa di bello.

Chiudiamo citandoti. Il lavoro per te oggi, in una parola.

Flessibile.

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