Il tema della leadership è da sempre uno dei cardini su cui si impernia il mondo del lavoro, e non solo. Ma il significato stesso della parola ‘leader’ è stato stravolto nel corso del 2020, quando ci siamo dovuti confrontare – come società – con la più grave crisi sanitaria dal secondo dopoguerra in poi. È cambiato il modo di vivere la quotidianità lavorativa, sono cambiati molti equilibri di mercato, stiamo convivendo con ingenti perdite di vite umane quotidiane, molti lavoratori stanno imparando a destreggiarsi in un contesto sempre più digitale ed è cambiata anche la scala dei valori e delle priorità di molte persone. Allo stesso modo, di conseguenza, sono cambiate pure le caratteristiche che rendono un capo, o un collega, un vero leader.
Più che di una sostituzione di vecchie caratteristiche virtuose con alternative nuove, si tratta di un’aggiunta: la leadership continua a essere composta di tutti quegli ingredienti ormai ben conosciuti, a cui si sommano però ulteriori elementi che possono fare la differenza. E c’è un filo rosso che li collega tutti: prendersi cura dell’altro, ossia pensare al benessere di colleghi e sottoposti instaurando relazioni più empatiche, profonde e – in fin dei conti – umane.
Ogni anno è un anno nuovo, si potrebbe obiettare, e per propria natura l’elenco delle caratteristiche che identificano un buon punto di riferimento sul lavoro evolvono nel tempo. In realtà, però, il 2021 è davvero un momento speciale in questo senso. L’anno scorso l’arrivo della pandemia è stato improvviso e (colpevolmente) inatteso: si è reagito in modo emergenziale, da pompieri, cercando di tenere assieme i pezzi e salvare il salvabile, facendo leva sulla buona volontà di ciascuno. Ma quest’anno è diverso. Ci siamo resi conto che la battaglia contro il nuovo coronavirus e le sue varianti non è questione di pochi mesi, che l’impatto economico determinato dall’emergenza sanitaria si farà sentire a lungo e che il periodo che stiamo vivendo lascerà una traccia indelebile nella nostra società e nella nostra memoria. Con la consapevolezza, ormai maturata da tutti, che gli eventi eccezionali accadono, e che è bene essere pronti a gestirli.
Spesso si utilizza la parola ‘resilienza’ per sintetizzare tutti questi concetti, ma forse il termine che nel concreto meglio descrive le sensazioni delle persone è ‘stress’. L’impatto psicologico della pandemia, l’imparare a convivere con situazioni impreviste e il senso di incertezza perenne si manifestano spesso in tensioni emotive e difficoltà (più o meno gravi) sul piano psicologico. Per citare un dato emblematico, uno studio della Keiser Family Foundation a marzo 2020 quantificava già in una su tre le persone preoccupate del contraccolpo psicologico dell’emergenza sanitaria, e lo scorso ottobre è stato registrato un deciso aumento delle persone che percepivano di essere in ansia o in uno stato di stress eccessivo, raggiungendo il 62% della popolazione negli Stati Uniti.
Già da ora così come per i prossimi anni, il vero leader sarà chi riuscirà a occuparsi anche del benessere mentale dei propri collaboratori: ma come? Anzitutto, rendendosi conto che il fardello psicologico che pesa sulle persone non è lo stesso per tutti. Come dimostra una ricerca condotta da Mequilibrium a proposito dell’impatto del Covid-19 sulla forza lavoro, i più colpiti dalla crisi sono i giovani sotto i 30 anni: il 29% si dichiara demotivato, il 33% preoccupato, il 24% dice di sentirsi solo e il 34% vive con frustrazione il confronto quotidiano con gli obiettivi professionali. Un secondo elemento è invece l’evergreen della resilienza, ma in senso concreto. Si tratta infatti di una competenza soft che va acquisita e allenata, con percorsi e attività ad hoc. Ci sono anche alcune statistiche che mostrano come l’incremento dello stress per chi già nel pre-pandemia seguiva corsi di resilience-building sia stato infimo rispetto al resto delle persone (l’1% contro il 20%), ma si tratta di sondaggi preliminari.
Il terzo punto verte sulla consapevolezza che la salute mentale è qualcosa che riguarda chiunque, proprio come la salute fisica. Il preoccuparsi del benessere psicologico non è una questione che può limitarsi a qualche caso sporadico, ma dovrebbe coinvolgere tutti i colleghi e i collaboratori. A volte, basta anche solo una semplice domanda o una piccola premura. Da qui deriva un ulteriore consiglio: proprio perché viviamo in un periodo di grande incertezza, offrire supporto quotidiano ai propri collaboratori dà benefici evidenti. Sentirsi sostenuti dal proprio capo, infatti, riduce di un fattore 10 la probabilità di avere difficoltà a dormire o di finire in burnout.
Quinta strategia, ovvia ma da non scordare, è di continuare a praticare tutte le altre tipiche azioni da leader virtuoso, come agire, gestire, prestare attenzione ai feedback e mantenere la situazione sotto controllo. Probabilmente in un periodo come questo il benessere mentale sta in cima a tutto, ma questo non significa che il resto sia trascurabile o inutile. Infine, passando dal livello individuale alla visione d’insieme in un contesto aziendale, un vero leader dovrebbe ora aumentare il numero dei propri collaboratori coinvolti in attività di formazione su questi temi. Gestione dell’imprevisto, flessibilità e adattabilità, cura del proprio benessere e tecniche antistress possono fare la differenza, tanto a livello individuale quanto collettivo.