Ricordo benissimo il 1’ maggio dello scorso anno. Stavamo per emergere dal terrificante periodo di Lockdown, quello vero, quello duro. Da un lato chiedendoci cosa sarebbe stato di noi, da un altro illudendoci che il tutto si potesse misurare in settimane. Compreso l’incubo di un contraccolpo fatale sul mercato del lavoro italiano. Che le conseguenze non potessero che essere a lunga scadenza lo avevamo chiaramente compreso, già un anno fa. Erano le dimensioni a sfuggirci, ancor di più gli aspetti ideali – diremmo concettuali – che la pandemia avrebbe finito per cambiare in via definitiva.
Un anno dopo, abbiamo imparato a non fare progetti a lunga scadenza e che l’unica garanzia a nostra disposizione è il piano vaccinale. Abbiamo capito, insomma, che una premessa è d’obbligo e riguarda tutti noi: dobbiamo mettere in sicurezza il Paese nell’unico modo che abbiamo, per passare subito dopo a ragionare di futuro. Ecco perché è fondamentale partire dalle condizioni generali della nostra comunità, per cogliere il senso dell’opportunità storica che ci si presenta. Se un anno fa ragionavamo solo in termini di danni, di posti di lavoro persi, di una sfinente e asfissiante mancanza di certezze, in questo 1’ maggio del 2021 non abbiamo solo la possibilità, ma il dovere di andare oltre. La conta dei posti di lavoro evaporati nella pandemia mette i brividi, per la cifra assoluta arrivata a toccare il milione e per la sua composizione, in massima parte determinata dal collasso di interi settori del lavoro autonomo. Le conseguenze sono state devastanti per i più giovani e le donne.
Eravamo fra coloro che esprimevano, a tal proposito, più di un dubbio sul senso ultimo del divieto di licenziamento esteso quasi sine die e queste cifre sembrano dar ragione a chi è istintivamente contrario a provare a drogare il mercato del lavoro. Sempre e pur con le migliori intenzioni, sia chiaro. Perché ora ci troviamo a dover gestire una spaccatura ancora più profonda, una vera faglia, fra chi non ha mai realmente rischiato e chi si è sentito progressivamente abbandonato e privato della prospettiva di un futuro credibile.
Eccola l’opportunità storica, decisiva e al contempo difficilissima da cogliere: portare il mercato del lavoro italiano in una dimensione in grado di rispondere finalmente alle esigenze dei tempi che ci è dato in sorte di vivere.
Sono almeno trent’anni che ne parliamo e i pur lodevoli tentativi non sono mancati, ma non abbiamo mai realmente aggredito il nocciolo del problema, se è vero che a pagare il grosso del prezzo di questo anno da incubo alla fine sono sempre i soliti. Con che faccia ci presenteremo davanti a quelle donne e a quei ragazzi di cui parlavamo, se continueremo a privarli di qualsiasi tutela, pur di continuare a garantire i super tutelati di oggi. Questa è una domanda chiave da porsi e alla quale non è serio continuare a sfuggire. Se pensiamo di poterci lavare la coscienza con i 600 €, i ristori e compagnia bella, continuando a tollerare differenze abissali di trattamento e produttività, ci condanneremo a buttar via l’unico aspetto potenzialmente positivo degli ultimi 14 mesi.
Oggi, si può pensare di realizzare una vera rivoluzione copernicana. Avremo a disposizione risorse impensabili un anno fa, le condizioni di partenza sono le peggiori possibili, dunque ideali per rivoltare come un calzino rendite di posizione, abitudini e supposti diritti acquisiti che hanno sclerotizzato buona parte del mercato del lavoro italiano.
Nessuno è così ingenuo da pensare che Mario Draghi o il Next Generation EU siano la bacchetta magica di Harry Potter, ma si devono cominciare a dare segnali forti e inequivocabili. Dall’università alla formazione durante gli studi e subito dopo, nella delicatissima fase di inserimento nel mondo del lavoro, dobbiamo imparare a dare spazio, ad affidarci al merito. Allo stimolo della libera e sana concorrenza, ancora alla realizzazione di un sistema non di garanzie eccellenti in teoria, ma nella pratica soffocanti per aziende e lavoratori, ma di sostegno e servizi. Donne e giovani hanno bisogno di sapere che potranno andare al lavoro, anche creando una famiglia, assumendosi degli impegni anche prima dei trent’anni (o spesso dei quaranta), senza entrare nel circolo vizioso e perverso del costante rinvio dell’assunzione di responsabilità.
Giovani formati per tempo, passati da esperienze diverse e qualificanti già nel giro di pochi anni dalla conclusione degli studi, saranno giovani più pronti a concorrere alle posizioni che oggi sembrano riservate a una pura selezione anagrafica.
Donne libere dal gioco dell’incivile scelta fra famiglia e carriera, saranno donne cariche di un’energia oggi loro negata da una società spesso moderna solo a parole.
Ho un sogno: liberarci tutti dall’incubo di un lavoro che non puoi perdere, non perché lo ami e ti permette realizzazione e soddisfazione personale, ma perché dopo semplicemente non ci sarebbe nulla. A 25,30 o 50 anni. L’augurio per questo 1’ maggio è che i lavoratori in Italia possano decidere del loro futuro, basandosi sulle proprie competenze, liberi di decidere su cosa puntare e quando farlo, senza che a stabilirlo siano carta d’identità, genere e soprattutto regole del XX secolo.