Quando ero poco più che adolescente, a cavallo tra i quindici e i sedici anni, mi ero trovato un lavoretto che ho amato tantissimo. Prima di andare a scuola ogni mattina prendevo il mio motorino, un typhoon rosso fiammante, e percorrendo la riviera di Pescara arrivavo in una piccola radio locale. Oggi non esiste più, ma all’epoca si chiamava Radiomania e occupava le frequenze 900 Megahertz. A seguire c’erano radio ben più ascoltate, quelle locali e poi le nazionali. Ma a me, liceale alle prime armi alle prese con gli strumenti della comunicazione, quella radio mi sembrava una stazione della BBC. Così ogni mattina per due anni intorno alle ore sette, con la pioggia o col sole (ma persino con la neve), arrivavo in radio, leggevo i dispacci dell’agenzia Ansa alla quale la radio era abbonata, mi spostavo nello studiolo radiofonico, accendevo il microfono e andavo on air. Un’esperienza straordinaria che mi ha fatto amare la comunicazione e mi ha fatto vincere quella iniziale ritrosia con una diretta radiofonica. Facevo bene quel lavoro, ma non ero – e non lo sono oggi – un genio. Ero semplice costante. Come una goccia che scende con regolarità, ero diventato bravino nel fare e rifare e rifare ancora quella stessa cosa, mattina dopo mattina.
Studiare, studiare, studiare. Alla fine in fondo credo che la chiave vincente in ciò che fai sia nella continuità, nella perseveranza, nella determinazione che si ripete giorno per giorno. Oggi viviamo una sorta di assuefazione rispetto all’intuizione geniale, alla lampadina che si accende e che genera rivoluzioni. Ma in fondo non è così. «Consiglio numero uno studiare, consiglio numero due studiare, consiglio numero tre studiare. Non ci si inventa Zuckerberg sotto la doccia. Le infrastrutture dove studiare ci sono, le startup devono imparare a fare apprendistato, devono andare in bottega. Devono migliorare applicandosi. Quindi bisogna imparare il mestiere piano piano, un passo alla volta», ha dichiarato Enrico Resmini, amministratore delegato del Fondo Nazionale Innovazione Invitalia Ventures Sgr e che ho avuto occasione di intervistare nel corso dell’evento Startupitalia Open Summit 2021 in Sardegna pochi giorni fa (qui per risentirlo). Perseverare è la chiave per vincere sfide apparentemente impossibili, per distinguersi dal rumore di fondo, per dare ritmo al proprio lavoro. A proposito di ritmo, c’è anche tutto questo dietro la storia di successo dei Maneskin. Come in queste settimane ha ricordato la stampa di mezzo mondo, questo gruppo rock di giovanissimi talenti romani è passato negli anni dalle esibizioni in via del Corso a Roma fino a trionfare sul tetto d’Europa, nella competizione musicale globale Eurovision 2021 a Rotterdam.
La regola delle diecimila ore. Studiare, studiare, studiare. Di più: fare pratica. Provare e riprovare. In un saggio che fece il giro del mondo nel 1993 lo psicologo americano Anders Ericsson, docente dell’Università del Colorado, quantificò la formazione necessaria per primeggiare: 10.000 ore il tempo stimato, ovvero circa 3 anni e mezzo di lavoro intenso e quotidiano, calcolando 8 ore al giorno. Ericsson analizzò un gruppo di giovani violinisti, ma dalla musica all’impresa il passo è breve. E allora conta più la genialità smisurata o la formazione costante? David Epstein, analizzando i campioni del baseball americano, concluse che il talento è come l’hardware di un computer, mentre l’allenamento è il suo software. Entrambi sono importanti e complementari. Anche se le proporzioni non sono analoghe, stando almeno all’analisi di Ernest Hemingway. Nel secolo scorso il pluripremiato scrittore americano sostenne che il successo è 1% ispirazione e 99% perspiration, ovvero sudore. E allora chiunque potrebbe primeggiare in qualsiasi disciplina, applicandosi intensamente. In fondo è quello che ha dichiarato anche Seth Godin, che ho intervistato insieme a Fabio Grattagliano sulle pagine del Sole24Ore per il nuovo libro uscito ad inizio 2021 “La regola”, edito da Roi Edizioni (qui l’intervista): «La creatività non si ripete, non può ripetersi. Ma il percorso creativo segue comunque uno schema. È una pratica di crescita, è una danza senza fine, è un percorso definito dalla resilienza e dalla generosità».
Oltre il genio. Su questo tema ci è tornato pochi giorni fa sull’edizione americana di Forbes l’imprenditore Abdo Riani. Alquanto eloquente il titolo: “Visionari contro scienziati nelle startup”. Così argomenta Riani. «Qualche decennio fa, quando le startup tecnologiche erano una cosa nuova di zecca, le storie di successo della prima ondata di giganti tecnologici erano per lo più attribuite al genio dei loro fondatori. A causa di questa narrazione, anche la scelta di molti investitori è stata quella erronea di cercare leader carismatici, forti e visionari su cui scommettere, senza indagare attentamente sulla realtà economica oggettiva sottostante, e tutto questo si è rivelato nel tempo una mossa assai rischiosa. Oggi possiamo affermare che essere esclusivamente un visionario dirompente non è un elemento particolarmente utile per fare innovazione e creare valore in una impresa». Una tesi ripresa, a modo suo, da un narratore di fama mondiale. “L’ostinazione, non il talento, ha salvato la mia vita”. Così affermava il grande scrittore statunitense Philip Roth, venuto a mancare tre anni fa. E se lo diceva lui conviene crederci per davvero.