Distratto da attività extrascolastiche. Con questa drammatica nota a margine venne inviata ai miei genitori la mia pagella del primo semestre in quinta superiore al liceo Classico D’Annunzio di Pescara, nell’anno dell’agognata maturità. A mettere nero su bianco questo pensiero era stata la mia professoressa di chimica, per nulla soddisfatta di tutto ciò che facevo nelle attività pomeridiane, dal tg degli studenti alla scuola di teatro. Correva l’anno 1997, un’era geologica fa per il mondo della scuola e quindi molto tempo prima che quest’ultimo comprendesse e incentivasse quei percorsi laterali a corredo delle classiche materie scolastiche. Eppure quella professoressa di chimica non ebbe ripensamenti, neppure quando andai a chiederle spiegazioni. Ma io non solo ero distratto da quelle altre attività: la verità è che mi divertivo tanto e facevo esperienza, e tutto questo mi motivava anche verso ciò che si faceva dentro la scuola, greco e latino compresi.
Confusi, felici e vincenti
Protesi tra mille opportunità – in quel caso scolastiche, per molti poi lavorative – ben oltre la certezza di ciò che si vuole fare. A riaprire il vaso di Pandora è stato un paio di mesi fa il giornalista Alessandro Pilo su Vice.com. «Il mio percorso professionale non è stato dei più semplici: dopo aver completato un dottorato di ricerca in lettere in Italia, ho deciso di trasferirmi all’estero e lavorare per una ONG ambientale. Poi ho lavorato in un bistrot vegano, come insegnante di educazione ambientale e come receptionist di un ostello. Per anni mi sono preoccupato solo di seguire i miei interessi e sviluppare più competenze, senza considerare come ciò avrebbe influenzato le mie future prospettive di carriera. Ma ultimamente ho osservato la coerenza degli amici nel loro percorso professionale e mi sono chiesto se avessi fatto la scelta giusta. Contrariamente a quanto mi è stato detto per tutta la mia vita, non tutti sono d’accordo con l’idea che dovremmo scegliere una carriera in tenera età e mantenerla», ha scritto Pilo, che cita Emilie Wapnick. Questa scrittrice e imprenditrice canadese è convinta che alcune persone semplicemente non abbiano una vera vocazione nella vita, quanto piuttosto una varietà di talenti e interessi ugualmente preziosi. Lei chiama questo gruppo di persone multipotenziali e si include all’interno. Celebre è diventato un suo intervento al TedX: per Wapnick i multipotenziali possono raggiungere il loro pieno successo solo quando sfruttano tutte le varie opportunità. Chissà, forse appartenevo già ai multipotenziali senza saperlo. Ma oggi più che in passato sono convinto che questa generazione sia destinata a dominare il mercato del lavoro, sempre più fluido, ibrido, diversificato. «Un multipotenziale è un individuo che nutre parecchi interessi e vuole dedicarsi ad attività che giudica creative e sfidanti. È una persona incuriosita da diverse discipline che non hanno un legame tra loro. Non esiste un unico modo di essere dei multipotenziali: c’è chi ha sul piatto più progetti differenti nello stesso momento e chi si dedica a ciascuno di questi in modo sequenziale, uno dopo l’altro. Tutti noi cresciamo con l’idea che occorre trovare al più presto la propria vera vocazione, indirizzandoci verso una determinata carriera, come se questa fosse l’unica strada possibile per il successo personale, ma non è così». Con queste parole Wapnick ha risposto alla prima domande di un’intervista rilasciata a Manager Italia. Però non è tutto rose e fiori. Wapnick lo dice chiaramente. «Il più grande ostacolo che un multipotenziale si trova a fronteggiare è la mancanza di risorse per la carriera e modelli di riferimento. La società non ci capisce e il modello di carriera tradizionale di solito non considera prioritari aspetti come la varietà e l’esplorazione di nuovi settori e attività. Abbiamo inoltre bisogno di imparare come bilanciare la nostra spinta verso il nuovo con il desiderio di fare progressi nei singoli progetti».
Oltre la specializzazione
In fondo la pandemia ha costretto a rivedere l’organizzazione del lavoro. «L’approccio dei multipotenziali potrebbe essere il futuro perché è una modalità che permette di raggiungere la stabilità finanziaria, avere flessibilità, soddisfare molteplici interessi e crescere come persone». Così si legge in un post pubblicato su Digiday. Da una parte il mondo nella sua complessità spinge per una iperspecializzazione e per una valorizzazione della verticalità delle competenze, dall’altra parte quella stessa complessità richiede chiavi di accesso per interpretare un mondo che ha da più sfumature. E allora mi viene in mente un altro libro che è diventato in poco tempo un cult. Nella sua traduzione italiana si chiama “Generalisti”, è stato pubblicato dalla Università Luiss e scritto da David Epstein. Nel volume si esplicita chiaramente la forza della diversificazione, della molteplicità dell’essere. Analizzando la vita e la carriera di atleti, musicisti, imprenditori e scienziati affermati, Epstein verifica che una specializzazione non precoce, preceduta da una serie di tentativi, è in genere alla base della realizzazione. D’altronde è un bluff il fatto che le storie di quanti conseguono risultati importanti vengano spesso descritte come percorsi perfettamente lineari: per Epstein, Roger Federer scoprì il tennis dopo aver sperimentato tutti gli altri sport che gli fossero capitati, Django Reinhardt sviluppò il suo ineguagliato stile chitarristico dopo aver perso l’uso di due dita, mentre Vincent Van Gogh si scoprì capace di dipingere nello stile che avrebbe rivoluzionato per sempre l’arte solo negli ultimi due anni di vita, dopo aver tentato di intraprendere i mestieri più disparati. Così una conoscenza allargata, flessibile e trasversale è la chiave per il futuro. Perfezionarsi in un solo campo in un determinato periodo storico come quello che stiamo vivendo può risultare un limite: d’altronde i momenti di crisi e di improvvisazione comportano anche un repentino ripensamento. Come dimostra Epstein, tutti si specializzano in qualcosa prima o poi, ma per conseguire qualunque risultato nessun metodo è più efficace che trasformare la propria vita in un continuo esperimento. Provare, sbagliare, riprovare e infine farcela.