Se dovessimo oggi scattare una fotografia del mondo del lavoro verrebbe necessariamente sfocata perché in movimento. Però sarebbe una foto plurale, costellata di tanti elementi in passato ritenuti soltanto accessori e oggi integrati nel modello di business, nella governance, nella visione di un’azienda. Elementi che richiamano quel purpose, ossia quello scopo di impresa, che oggi si declina in un’attenzione ostinata verso le proprie persone e verso la comunità. Perché ciascuno – sia esso dipendente, fornitore, cliente o portatore di interesse – è da tutelare, far crescere, motivare, coinvolgere in un progetto. Quella fotografia però inevitabilmente conterrebbe con sé quel convitato di pietra rappresentato dal Covid: perché l’emergenza pandemica, partita come sanitaria e divenuta economica e sistemica, ha contribuito e non poco a ridefinire le priorità e a riscrivere le regole del gioco, fino a scardinare sistemi sopravvissuti nei decenni e oggi diventati simulacri superati.
Prima di tutto le persone. «Oggi le persone cercano molte più cose del passato oltre il semplice rapporto di lavoro. Ecco perché c’è bisogno di una visione contemporanea che vada oltre il business. L’azienda la si sceglie attraverso un’attenta valutazione, ma all’azienda si chiede di partecipare al cambiamento, di agire ritagliandosi un posto nel mondo. Le nuove generazioni che entrano nel mondo del lavoro non richiedono soltanto formazione e remunerazione adeguata, ma la possibilità di aderire ad un progetto», afferma Donato Ferri, Europe West Consulting Leader di E&Y. Ecco perché fare impresa oggi diventa una sfida legata alla comunità nella quale si abita. «Il driver ancora una volta sono le persone. La tecnologia c’è ed è essenziale, ma non basta: certamente non è più accessoria ed è comunque integrata nel progetto stesso dell’azienda, ma è il capitale umano a guidare il cambiamento. La marca deve interrogarsi sulla propria visione di futuro, puntando in modo autentico e coerente ad una reale attrazione di talenti. Ma attenzione. Non tutti sono in grado di trasferire questa visione di futuro. Le persone e i consumatori spesso sono più avanti delle aziende nel cogliere questi segnali di futuro», precisa Ferri.
Diventare motivatori. In questo mondo nuovo anche la funzione HR, solitamente la prima porta di ingresso per le nuove risorse e per i talenti in azienda, è costretta a ripensarsi. «Cambiano le skills di chi lavora accanto e per le persone e necessariamente anche HR deve evolvere. Questa funzione, insieme a quella del marketing, è la più sottoposta al processo di trasformazione. Su queste due aree la traiettoria è più complessa. Ma questo cambiamento non è un fatto che riguarda esclusivamente il digitale. Ancora una volta al centro ci sono le persone. Ed ecco perché affermo che HR è uguale anche a PR», dice Ferri. PR come pubbliche relazioni. D’altronde nel mondo capovolto una funzione da sempre orientata all’interno dell’azienda oggi deve guardare necessariamente fuori. «Tutto questo non è uno slogan. Coloro che lavorano nelle risorse umane devono uscire allo scoperto. In HR oggi si annida l’esigenza di costruire dei network di persone che sono già connesse. Ecco perché si deve curare la modulazione, l’evoluzione, l’engagement». Fa capolino la figura dell’animatore, che diventa un motivatore del percorso di crescita delle persone. Ma tutto questo si incunea in una complessità strutturale. «Siamo di fronte ad un mondo nuovo che richiede competenze nuove. Per decifrare questa situazione occorre rispondere con nozioni legate alla psicologia, alle neuroscienze. Tutto questo implica un cambiamento della relazione oltre il digitale. Engagement significa creare connessioni attive, avere la capacità di mettersi in ascolto», puntualizza Ferri.
Oltre la specializzazione. La chiave è declinare questa interazione con competenze sempre più ibride. Lo ha certificato anche lo studio predittivo presentato a febbraio 2021 da EY, Pearson e ManpowerGroup e che anticipa quali saranno le professioni tra dieci anni. Una riflessione prospettica che fornisce indicazioni per ridurre il gap tra formazione e mondo del lavoro: la ricerca si è sviluppata in un modello predittivo in grado di descrivere come cambierà il lavoro e di anticipare le competenze necessarie a fronteggiare i macro-cambiamenti. Secondo il rapporto nei prossimi dieci anni le attuali professioni cresceranno solo poco più di un terzo (36%), mentre tutte le altre rimarranno stabili (20%) o diminuiranno (44%). Ma attenzione. Solo la metà saranno legate alla tecnologia. Aumenteranno invece quelle legate a cultura, comunicazione, servizi di cura, insegnamento e formazione. È la riscossa dell’umanesimo contrapposto da sempre alle competenze evolute tecnologiche e scientifiche. Ma è anche la conferma della strategicità delle skill cognitive e relazionali. Così il futuro del lavoro passa da competenze ibride, rilevanza delle soft skill e fine dei sistemi educativi lineari. «Anche nella riedizione di ottobre viene fuori un tramonto della specializzazione con profili tech sono in crescita. Ma il fenomeno prevalente è quello della polarizzazione, che continua e si accentua tra tecnici e non specializzati con sbalzi di alcune domande di lavoro. Un elemento che la pandemia ha accelerato», afferma Ferri.
Ma in questo contesto che ruolo ha la digitalizzazione?
È un fenomeno trasversale che crea due effetti: per ogni professione l’impatto del digitale sta aumentando e contestualmente il gap di competenze richieste oggi si avverte in tutto il mercato del lavoro. L’altro effetto è che per la prima volta da un po’ di anni si sta creando un mercato più orientato all’offerta che alla domanda. Così la differenza la fanno le persone che si riescono ad assumere, a trattenere, a formare. C’è molta competizione sulle stesse risorse, vista la loro scarsità. E non è un fenomeno solo italiano, ma globale.
Da fuga ad attrazione dei cervelli?
La fuga dei cervelli del passato è stata superata. Ora c’è la lotta affinché quei cervelli si possano intercettare e trattenere. Una guerra che si combatte non solo con l’arma della remunerazione.
L’Harvard Business Review scrive di una “nuova era conversazionale” per la marca. Il lavoro che verrà si dovrà fare carico anche di tutto questo?
Lo sta già facendo. È in atto un cambio di paradigma. Nella ricerca che abbiamo condotto con SWG circa il 60% dei consumatori è pronta a scegliere una marca che ha un ruolo attivo nelle scelte di sostenibilità.
Si parla di lavoro ibrido con una dimensione spazio-temporale saltata completamente rispetto al passato. Come dovrebbero posizionarsi le organizzazioni?
Le aziende si stanno attrezzando al lavoro ibrido, ma qui non si tratta di fare il “2×3”, cioè due giorni in ufficio e tre in smart working. Qui si deve andare oltre. Il 90% delle aziende non sono pronte a ricreare nuove esperienze per un lavoro che è già cambiato con la pandemia. Bisogna governare la complessità con nuovi meccanismi di funzionamento dei team al lavoro.
Come si riparte dai team?
Intanto questo concetto è molto fluido. Non bastano le policy, le piattaforme tecnologiche e i processi tradizionali HR, ci vogliono nuove visioni di futuro, nuovi modelli di relazioni tra le persone e tra le persone con una maggiore integrazione dei contenuti personali e professionali che si muovono all’interno di queste reti.