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Appunti per una scuola che cambia

Scritto da Redazione di LinC | 21/01/22 9.34

La pandemia ha messo al centro l’importanza del digitale, sia inteso come infrastruttura sia come consuetudine e strumento educativo. Ancora oggi, a quasi due anni dal primo lockdown, la dad è una possibilità reale ma come viene percepita dagli studenti?

Nel quartiere dove vivo ci sono numerose scuole. Scuole elementari, medie, asili, un liceo classico, un istituto tecnico. Le ho viste in questo lungo periodo colorarsi di cerchi distanziati un metro lungo i marciapiedi che le circondano, di cartelli disegnati a mano, di striscioni fatti con i fogli A4, di graffiti. Quasi tutti dicevano cose come “vogliamo tornare a scuola”, “mi mancano i miei compagni”. Sui cancelli delle scuole materne c’erano dei ritratti dei vari bambini e quasi tutti avevano una strana cornice attorno. In una delle tante passeggiate con cui cadenzavo i fine settimana del lungo secondo lockdown, ho realizzato che quegli occhi innaturalmente distanziati, quei capelli drittissimi fatti con i pennarelli, in realtà erano incorniciati da uno schermo stilizzato, lo stesso da cui i bambini vedevano i loro compagni di scuola ogni giorno durante quei mesi strani.

Nel periodo degli esami di maturità, lo scorso giugno, quando passavo davanti al liceo classico c’erano sempre dei gruppetti di amici, dei genitori impazienti, dei fidanzati con un mazzo di fiori in mano in attesa che il loro maturando uscisse. La sera, per terra, rimanevano stelle filanti, cuoricini, stelline di carta luccicante: non si poteva assistere agli esami, la discussione era il maturando da solo e la commissione, tutti gli altri dovevano aspettare nemmeno fuori dalla classe, proprio fuori dall’istituto. In quella che forse è la prima prova vera, l’esame degli esami, individuale ma certamente collettiva, un rito che si espia in gruppo nella gioia e nel dolore, stavolta si era da soli. A pensarci, incrociando gli occhi di quelli lì, fuori in attesa, mi sono commossa.

Nonostante i tentativi, le pezze, dunque, è stata la solitudine una delle cifre della scuola durante la pandemia. Un rituale collettivo spezzato che da più fronti si è cercato di ricostruire grazie ad altre abitudini, ma nessuna è sembrata sufficiente. Distanziamento, lezioni in presenza, didattica a distanza, banchi a rotelle, mascherine, turni. Un insieme di nuove consuetudini che in realtà non si sono mai riuscite a standardizzare fino in fondo, perché tutti speravano che prima o poi non sarebbero più servite, che si sarebbe tornati – come si dice – alla normalità. Ma forse c’è sempre stato qualcosa di sbagliato in questa speranza.

C’è un errore nell’utilizzare il verbo “tornare“, perché è proprio la scuola, la formazione, a uscire da questo periodo emergenziale con l’ancora più evidente consapevolezza di essere stata troppo a lungo ferma, di non essersi evoluta davvero, in primis di non essere andata incontro alle necessità dei ragazzi e quindi della società che cambia. Come ha analizzato lo scrittore Alessandro Baricco in una conversazione con Riccardo Luna, in un TechTalk dello scorso giugno: «Noi la scuola la cambieremo. Gli europei la cambieranno in un numero di anni non enorme, ne va delle loro sopravvivenza. Questo è un sistema destinato a collassare. La pandemia ha dato una grandissima spallata. I nostri figli andranno ancora in questa scuola. I loro figli no».

È dunque risultata evidente l’urgenza di cambiare, anche alla luce di quanto il digitale non fosse fino in fondo qualcosa di scontato per tutti e che anzi abbia reso ancora più forti le disuguaglianze. Per questo in molti hanno provato a imbastire una discussione il più possibile costruttiva per la scuola che verrà. Fondazione Feltrinelli lo scorso luglio ha pubblicato l’e-book Scuola sconfinata, dove i diversi autori propongono, appunto, una rivoluzione educativa, che apra anche la scuola e la formazione eliminando muri e luoghi fisici. «È un dovere di cittadinanza non farsi trovare impreparati o distratti da questioni di corta visione, bisogna coniugare la lungimiranza di un anno costituente con l’urgenza di offrire esperienze significative alle nuove generazioni, per risarcirle di quanto hanno perduto: per le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi non solo vanno creati spazi e tempi che sono stati sospesi da questa emergenza sanitaria, ma va pensato un progetto consapevole, mirato al benessere e alla formazione» si legge nell’introduzione.

Il titolo mette al centro l’abbattimento dei confini che relegavano la scuola a un determinato spazio e un determinato tempo, che come si è visto a un certo punto non sono più valsi, e il desiderio di aprire la scuola a tutto ciò che è formazione, anche superando l’idea della lezione classica, anche grazie al digitale. È evidente che è su questa infrastruttura “terza“, infatti, che si è basata la formazione per quasi due anni, ma è altrettanto evidente quanto l’averla data per decenni per scontata abbia determinato dispersione scolastica (i dati ufficiali MIUR sono fermi al 2019 e segnalano un 13,5% di abbandono, ma rilevazioni più recenti lo attestano al 27%), disparità formative e differenze di apprendimento (l’8% dei ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado è rimasto escluso da qualsiasi forma di didattica a distanza), anche a causa di un corpo docente non sempre preparato.

Su questo sempre Alessandro Baricco sottolinea che «il fatto che queste legioni di ragazzi che studiavano male e hanno smesso siano stati colpevolizzati dimostra che siamo educatori con tanti difetti. Ovviamente non è che a un ragazzo che lascia la scuola gli devi dire bravo. Ma devi leggerlo dentro. Ci vuole della personalità per staccarsi dalla scuola. Quell’energia lì, quella personalità, va recuperata e utilizzata. Senza santificarli, perché il primo valore che dobbiamo trasmettere ai giovani è il senso del dovere: se il tuo lavoro è fare il pane fai il pane, anche sotto il temporale. Ma se il forno non funziona c’è anche il panettiere che dice: “Sapete che c’è? Io mi fermo sennò non lo capirete mai che avete un problema”.

La protesta silenziosa dei tanti che quest’anno si sono staccati è una protesta che dobbiamo ascoltare». La scuola di oggi e soprattutto di domani deve rispondere a queste richieste di attenzione, di cambiamento. Rosa Maria De Giorgi, già vicepresidente del Senato e dal 2018 membro delle Commissioni parlamentari della Cultura, Scienze e Istruzione e di quella per l’Infanzia e l’Adolescenza, è convinta che il digitale dovrà fare parte della scuola, ma che la didattica non possa prescindere dalla presenza, a tutti i costi. «L’esperienza della DAD è stata cruciale nella prima parte della pandemia, ma la socialità per i ragazzi è fondamentale, per questo e i prossimi anni scolastici l’obiettivo comune è quello di non riparlare di didattica a distanza, tranne che per casi specifici e localizzati nel tempo (dal 10 gennaio, per la scuola infanzia, sospensione di 10 giorni delle attività in presenza di un singolo caso accertato in aula; scuola primaria, DAD di 10 giorni in presenza di due alunni positivi e per la scuola secondaria di primo e secondo grado, sospensione didattica in presenza con quattro casi di positività. In presenza di due casi di positivi è previsto l’utilizzo di mascherine Ffp2, ndr).

A partire da questa esperienza mi immagino una scuola moderna, digitale, delle competenze, che insegni nuovi mestieri e risponda a ciò che sarà il mondo del lavoro del futuro. La nuova scuola sarà diversa e per questo dovremo garantire agli insegnanti una formazione permanente che li renda pronti alle sfide che anche i ragazzi pongono loro. Ci sono esperienze interessantissime dove i territori si mettono a disposizione per superare questo gap e la pubblica amministrazione deve mettere a disposizione tutte le proprie risorse perché ciò avvenga. Il digitale è un arricchimento enorme e serve sfruttarlo fino in fondo. Questo non significa lezioni da casa, la scuola si fa a scuola».