Lavoro liquido e orari “flessibili”. Relazioni, lavoro di squadra e accordi commerciali risolti nello spazio di una videoconferenza. Niente chiacchiere alla macchinetta del caffè, niente “team building” e tante scrivanie silenziose in uffici e palazzi ancora più silenziosi. Il mondo del lavoro ha fatto di necessità virtù. Costretto a una repentina ritirata dal lockdown imposto a inizio pandemia, ha poi iniziato a riadattarsi attorno a questo nuovo modo di vivere. E di lavorare.
Lo smart working – il cui elemento caratterizzante non è sempre stato un uso intelligente del tempo lavorato, come il nome inviterebbe a pensare – da casualità si è trasformata in abitudine, via via sempre più radicata e strutturata all’interno di aziende di ogni tipologia. Complice la tecnologia, la connettività pervasiva e l’utilizzo di strumenti di condivisione possibili grazie al cloud, le distanze fisiche sono state colmate, e l’economia ha proseguito la sua corsa, al netto di qualche incespicata.
Ora è tempo di consapevolezza, per trasformare questi cambiamenti forzati in qualcosa di diverso e per modificare (in meglio) l’intero ecosistema lavorativo e delineare il “nuovo” mercato del lavoro, non solo per il 2022 appena iniziato, ma anche per gli anni a venire. A influenzare questi cambiamenti non saranno solo le strategie che le aziende saranno in grado di mettere in campo per attrarre e trattenere i lavoratori più competenti, ma anche l’affermarsi di un “nuovo lavoratore”, o meglio persona, i cui bisogni, aspettative e priorità sono cambiati radicalmente.
È questo il messaggio che arriva anche dal Report The Great Realization realizzato e promosso da ManpowerGroup. Una vera e propria presa di coscienza dei quattro fondamentali fattori che favoriranno la metamorfosi del settore e che abiliteranno il “lavoro 3.0”, quello in cui la tecnologia sarà un elemento intrinseco ma sempre più sostenibile, il desiderio delle persone sarà messo al centro delle scelte e delle strategie, e in cui le aziende adotteranno un nuovo approccio nella gestione non solo del business, ma anche nella costante ricerca di talenti e creatività senza i quali non ci sarà progresso.
«È arrivato il momento di riorganizzare il mondo del lavoro dall’interno. Per farlo però bisogna procedere come quando si mette ordine in casa, nell’armadio, negli stipetti della cucina. Svuotare tutto, valutare utilità e potenzialità di ogni cosa. A cosa serve? A cosa potrebbe servire o dove? E poi rimettere in ordine. Invece assistiamo a una paralisi del manager che spesso pensa che procrastinare il cambiamento sia l’unica via. Un po’ come quando ti dicono che il tempo guarisce tutte le ferite», dice Domitilla Ferrari, autrice del libro Il pessimo capo. Manuale di resistenza per un lavoro non abbastanza smart (Longanesi). E proprio il libro spiega che per cambiare servono non solo esempi nuovi, ma anche modificare il proprio punto di vista, affrancandosi dal “si è sempre fatto così”. «Le decisioni che cambiano il futuro, che sia il nostro o dell’azienda, non sono mai trascurabili. Se procrastini, metti i cocci sotto al tappeto. E, prima o poi, su quello spessore ci si inciampa». sottolinea Ferrari.
E su questa linea si muovono proprio le grandi tendenze tracciate dal Report ManpowerGroup. A partire dalla valorizzazione del talento e dalla necessità di sempre più spazio – fisico e mentale – per chi lavora, un elemento che la pandemia ci ha insegnato a non sottovalutare. «A volte la fatica, le incomprensioni, o peggio il conflitto, nascono da un’ambiguità sulle aspettative verso il futuro. Quante volte le persone scontente non sono state ascoltate in tempo, lasciando maturare in loro un’insoddisfazione letale per il clima aziendale, se non finanche per i risultati dell’azienda tutta: una persona infelice è meno produttiva, ma costa uguale», dice Ferrari.
E non sarà sulla valutazione costi che si dovrà basare la nuova era del lavoro, ma sulla strategia pura. A partire proprio dalla capacità di “investire” nella ricerca di talenti, sempre meno scontati e sempre più rari, ma oggi unico elemento capace davvero di fare la differenza, più di mille dotazioni tecnologiche. «Le aziende stanno iniziando davvero a capire che il più grande vantaggio del lavoro da remoto è la competitività che diventa pressoché su scala globale. E questo si traduce anche nella possibilità di attrarre talenti da ovunque. Le aziende possono ampliare la ricerca oltre il tradizionale bacino metropolitano e attingere da scuole, università e aree geografiche diverse», spiega Domitilla Ferrari.
Un pensiero a cui fa eco quello del sociologo e professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma Domenico De Masi, secondo cui anche il “fattore donna”, sarà la prossima sostanziale rivoluzione di senso del mercato del lavoro. «Entro il 2030 il 60% dei laureati e possessori di master nel mondo saranno donne: e le donne sono portatrici da sempre di una cultura legata all’etica, all’estetica ma anche al multitasking e questo potrà cambiare profondamente il mondo del lavoro», sottolinea.
Non sarà possibile, sarebbe un paradosso. Il cambiamento è qui per restare, anche se non per rimanere immutabile. La cultura aziendale si è sgretolata dove la coesione si basava solo sull’esistenza di uno spazio fisico. Da remoto è diventato necessario andare a caccia di valori condivisi. E, una volta trovati, è su quelli che si dovrà ricostruire un nuovo ecosistema, ragionando però anche su una radicale trasformazione della cultura del tempo lavorativo come condizione per una reale produttività. «Il rimedio è la riduzione dell’orario di lavoro», sostiene De Masi che, però, non concorda con il recente “modello belga” della riduzione della settimana lavorativa da cinque a quattro giorni senza rimodulare le ore. «Spalmare lo stesso numero ore in meno giorni non è una soluzione sensata. Bisogna piuttosto lavorare per abbattere il monte orario: non ha più senso dedicare ogni giorno otto ore della propria vita al lavoro. In Germania, prima economia europea, si lavora in media 1.400 ore all’anno. In Italia 1.800, 400 in più. La Germania ha un tasso di occupazione del 79%, l’Italia è ferma al 58%. Uno spread di 21 punti rispetto al Paese con le migliori performance e dove i manager escono dagli uffici alle 5 del pomeriggio», dice De Masi, sottolineando l’importanza di recuperare del tempo per “l’ozio creativo”. «Andare al cinema, a teatro, al ristorante. Sono tutte attività che farebbero bene non solo a se stessi e alle proprie famiglie, ma paradossalmente anche all’economia». E in questo, spesso non sono solo aziende e manager a essere “conservativi”. Secondo De Masi, una grande colpa ce l’hanno le stesse persone che non sono state fino a oggi abbastanza coraggiose da lottare per una modernizzazione del lavoro. «Servono persone coraggiose, capaci di credere loro stesse per prime in un cambiamento di valori e prospettive».