Un’azienda più inclusiva è un’azienda più produttiva. Un luogo sicuro, in cui ogni persona può sentirsi libera di mostrarsi per ciò che è, senza stereotipi né pregiudizi.
Eppure, nonostante dal 2003 sia illegale in Europa discriminare in base all’orientamento sessuale, ancora in pochi sono disposti a raccontarsi apertamente. In fase di colloquio, ma non solo. Un fenomeno che ManpowerGroup ha indagato con la ricerca Diversity at Work, intervistando più di 4.736 persone in diversi Paesi europei, dimostrando come la strada per raggiungere la piena inclusività sia ancora lunga. Il 42% delle persone LGBTQ+ non condivide il proprio orientamento sessuale sul lavoro perché teme attacchi o rifiuti (26%) o perché ha paura di perdere delle opportunità (20%). Il 59% ammette di essere stato vittima di commenti sgradevoli basati sul proprio genere o sull’orientamento sessuale e in più della metà dei casi (56%) il linguaggio inappropriato è stato usato da un leader o da un manager. Ma c’è di più: il 26% degli intervistati dichiara che la propria identità LGBTQ+ ha condizionato le opportunità di lavoro, per il 18% ha diminuito le possibilità di ottenere una promozione e solo l’11,3% delle persone trans è stata promossa dopo aver fatto coming out.
«Questi numeri sono lo specchio di un Paese che ha ancora bisogno di un percorso di elaborazione culturale e sociale in materia di inclusione e rispetto delle diversità» riflette Manuela Macario, responsabile per le Politiche del Lavoro di Arcigay. «Le discriminazioni sono il frutto di stereotipi e pregiudizi consolidatisi negli anni. Possono manifestarsi in maniera diretta ed esplicita, ma anche in modo più subdolo e difficile da riconoscere e denunciare. La comunità trans, in particolare, deve fare i conti con la scarsa dimestichezza dei datori di lavoro in materia di varianza di genere e con la mancanza di strumenti di inclusione. È quindi necessario tenere conto degli aspetti di paura interiorizzata delle persone LGBTQ+, frutto di una società ancora etero-normata che condiziona sul piano psicologico tutte e tutti e che pertanto può essere causa di varie forme di omofobia».
«Questi dati devono farci riflettere» aggiunge Marilena Ferri, People & Culture Director ManpowerGroup «e rendere ciascuno di noi consapevole del fatto che per sostenere il cambiamento dobbiamo lavorare in primis sulla cultura aziendale per sradicare consuetudini e cliché che si pongono come ostacoli al cambiamento».
Le sfide sono su più livelli e abbracciano varie aree. Come ricorda Macario, alcune sono più esposte di altre. Pensiamo alla scuola o alla sanità. Senza dimenticare tutti gli ambienti lavorativi a maggioranza maschile, nei quali l’omosessualità è ancora vissuta come un tabù tanto da rendere i lavoratori LGBTQ+ invisibili. Altrettanto evidente è la differenza legata alla dimensione delle imprese. «Le multinazionali e le grandi aziende non possono sottrarsi al confronto con i Paesi più avanzati in materia di inclusione e diritti, mentre le PMI sono ancora poco consapevoli. È fondamentale, però, che le buone prassi adottate dalle grandi trovino la strada per “contaminare” l’intero sistema produttivo nazionale» sostiene Macario.
«Del resto» come ricorda Ferri «a fare la differenza sono sempre le persone e per quanto le grandi aziende abbiano più facilmente accesso a strumenti che possono agevolare questo processo, anche le piccole possono fare molto, distinguendosi con esempi virtuosi».
Il Nord Europa, in particolare, nell’ultimo decennio ha fatto notevoli passi avanti, così come il Nord America, che sta lavorando molto sull’utilizzo di un linguaggio rispettoso e inclusivo. Quando si parla di discriminazioni subdole, infatti, il linguaggio è il primo imputato. «Il punto è capire che la diversità può essere motore di innovazione. Ma per essere davvero inclusivi, non basta affermalo, bisogna mettere in atto azioni concrete» rimarca Ferri.
Sempre la ricerca, infatti, testimonia come il 62% degli intervistati LGBTQ+ si senta più produttivo quando smette di nascondere la propria identità. 8 europei su 10 sostengono inoltre che un ambiente diversificato e inclusivo è, per definizione, più innovativo e creativo. Non solo.
Le misure di Diversity & Inclusion hanno anche un notevole valore in termini di attrazione dei talenti: il 34% delle persone LGBTQ+ intervistate considera le politiche di inclusione dell’azienda prima di scegliere un’offerta di lavoro. E l’Italia è uno dei Paesi in cui questo aspetto conta di più nella valutazione fatta dai candidati. In particolare, per chi lavora nel campo delle risorse umane, del marketing e del legal, e per i lavoratori e le lavoratrici più giovani (39%).
Dunque, quali misure adottare per essere più inclusivi? ManpowerGroup suggerisce alle imprese di definire una strategia globale, accompagnata da formazione periodica, favorendo la diversità anche a livello dirigenziale e nei consigli di amministrazione, così da creare team più rappresentativi. Lo stesso Gruppo, infatti, intende raggiungere entro il 2024 il 40% di donne in posizione di leadership (oggi è al 39%). Un tema approfondito con la ricerca 7 steps for conscious inclusion dalla quale è emerso che le aziende sono ancora in una fase di “inclusione conscia”.
«Secondo gli intervistati, ci vorranno quasi 100 anni per raggiungere la vera parità di genere, cioè quel momento in cui ci sarà un’inclusione inconscia, ovvero: non fare nulla per farlo accadere, ma vederlo accadere» afferma Ferri.
Un altro aspetto importante è far uscire le politiche pro-LGBTQ+ dai soli confini aziendali, collaborando con gruppi di attivisti o con enti benefici. Arcigay ha infatti sviluppato un network, Diversity Net@Work che mira a valorizzare e supportare le imprese impegnate nell’adozione di policy che promuovono la cultura della diversità. «Ci sono diverse aziende che stanno facendo un importante lavoro con tante iniziative, dal linguaggio agli spazi, decostruendo ruoli ed espressioni di genere» rileva Macario. «Un percorso che parte da una formazione di base e specialistica sui temi dell’identità sessuale e della diversità come valore culturale e sociale, per poi proseguire con un sistema di monitoraggio che coinvolge attivamente i dipendenti e che, con azioni di counselling, li supporta per agevolare la consapevolezza di sé, la visibilità, l’auto accettazione». E anche lo smart working, che tanto si è diffuso a seguito della pandemia, può diventare uno strumento di inclusione, dando la possibilità ai lavoratori di sentirsi più liberi, senza il timore di subire pressioni fisiche e psicologiche. «Sviluppare una cultura della diversità» rinnova Macario «significa migliorare gli ambienti di lavoro, mettendo al centro il rispetto della persona, con i suoi valori e la sua identità». E conclude: «Solo se impareremo a riconoscere e rispettare le diversità, potremo davvero contribuire a un’evoluzione positiva dei singoli, delle aziende e, più in generale, dell’intera società».