Può una lingua essere definita sessista? La risposta è no. L’uso che ne facciamo però, quello si. Ne è convinta Manuela Manera, linguista e autrice del libro La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico (Eris, 2021). Il sessismo non lo si trova infatti nelle strutture o nei meccanismi della lingua, sono invece le scelte di chi la parla a fare la differenza. A partire dal linguaggio usato proprio sul posto di lavoro quando si decide di negare la declinazione femminile ai ruoli apicali se ricoperti da una donna. O quando il riconoscimento dell’identità di soggetti non binari tramite l’utilizzo di nuovi escamotage linguistici diventa argomento di discussione. Il percorso è ancora lungo, ma la comunicazione e il linguaggio possono in realtà essere strumenti fondamentali non solo per l’inclusione sociale ma anche per raggiungere la parità di genere nel mondo del lavoro.
In che modo la parità di genere sul mondo del lavoro può passare da un linguaggio più inclusivo?
«Il rapporto tra parole e realtà è molto stretto. Le prime ovviamente da sole non bastano per modificare da un giorno all’altro la seconda. Le parole però riescono a costruire una narrazione che ha un impatto sugli immaginari da un lato e il riconoscimento di diritti dall’altro. Comunicare in modo corretto, seguendo un’ottica di genere, significa aiutare a superare stereotipi e discriminazioni. Riconoscere sul piano linguistico le donne ricorrendo a una denominazione al femminile ad esempio implica riconoscerne la professionalità anche sul piano reale. Perchè parlare al maschile di avvocate, architette o ingegnere?»
Spesso viene detto che il femminile professionale suona male.
«È interessante andare a indagare la sensibilità che si ha verso certi suoni o parole rispetto ad altri. “Otorinolaringoiatra” non è un suono particolarmente armonico, né facile da pronunciare. Eppure viene utilizzata come parola. Quali sono le parole che danno fastidio? Dietro questo “suonar male” si nasconde qualcosa di più profondo. Avvocata suona male, ma fa già parte della nostra tradizione. La preghiera Salve O Regina recita infatti “avvocata nostra”. La maestra ci suona benissimo se abbinata a certi contesti. La maestra d’orchestra però già inizia a stridere. Cosa non va allora? Il sessismo è ancora presente nella nostra società».
A tal proposito a che punto siamo?
«C’è ancora tanto lavoro da fare. Dal 1987, quando fu pubblicato uno studio a cura di Alma Sabatini, Il Sessismo nella lingua italiana, le cose sono migliorate. Però dopo trent’anni il femminile professionale non è completamente condiviso. Spesso non si tratta di neologismi: per la lingua italiana infatti si tratta della semplice applicazione di una regola grammaticale. Il femminile è già previsto».
Da cosa nasce invece l’esigenza di utilizzare lo schwa o l’asterisco? C’è una diversità tra i due simboli?
«Accanto alla battaglia sull’accettazione del femminile professionale se ne aggiunge un’altra che a ben indagare è sempre la stessa. Le soggettività non binarie e queer, esattamente come le donne, invocano il medesimo diritto all’essere riconosciuti in tutti i contesti.
La rappresentazione linguistica è fondamentale e si è fatta strada con due diverse strategie. Da una parte l’asterisco che però è un grafema e resta solo nello scritto. Dall’altra la U o lo schwa che ha una sua realizzazione anche sonora. Si cerca in questo modo di superare il binarismo di genere della lingua italiana. Manca infatti una terza uscita per rappresentare le persone che non si incasellano nel genere grammaticale maschile o femminile. È una sperimentazione del tutto nuova rispetto alla nostra grammatica che però è reale all’interno dell’attivismo e non solo. Compaiono anche nei saggi di alcune case editrici come Effequ, Eris o Capovolte. A Torino c’è la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo che usa lo schwa o il liceo Cavour che ricorre all’asterisco. Sono strategie creative per un linguaggio inclusivo e accogliente».
L’obiezione più comune, anche per l’Accademia della Crusca, è che questi simboli nella lingua parlata non vengono utilizzati. L’italiano non presenta appunto il genere neutro. Cosa ne pensa?
«Sono utilizzati. Dipende dai contesti che si frequentano. Sono comunque strategie integrative rispetto a quelle già presenti nella lingua italiana. Non vanno a sostituire altre forme. Forniscono invece un’opportunità per aumentare la potenzialità espressiva della lingua.
E tutto questo serve per rendere coerente la comunicazione di chi parla con quelli che sono i propri principi. Se voglio essere inclusiva ad esempio saluterò dicendo “Buongiorno a tutte, a tuttə e a tutti”. In questo modo sottolineo una posizione di attenzione e accoglienza nei confronti delle persone a cui mi rivolgo.
Dall’altro c’è poi chi sceglie di bandire l’uso di queste strategie. In ambito accademico mancano ancora approfonditi studi basati sull’analisi di testi che presentano strategie sperimentali e spesso si è di fronte a un atteggiamento di chiusura e condanna a priori. E il più delle volte queste condanne non riguardano solo temi linguistici, ma politici, sociali, persone in carne e ossa. Inoltre a pontificare su questi temi sono spesso persone non direttamente coinvolte nelle questioni che hanno portato a usare in modo creativo la lingua. Le motivazioni non sono più linguistiche, bensì ideologiche».
Quali sono le priorità da risolvere in tema di parità di genere sul mondo del lavoro?
«Agire con una comunicazione sia verso l’interno sia l’esterno che non sia sessista, puntare sulla formazione e su un’attenzione a non replicare inconsapevolmente strategie discriminatorie. È importante che le politiche aziendali vadano incontro a una parità e a una cultura il più inclusiva possibile».
In occasione dell’International Woman Day, ManpowerGroup ha stilato un vademecum per raggiungere la parità di genere nel mondo del lavoro. Secondo lei su cosa è più urgente concentrarsi?
«Viviamo in un contesto culturalmente svantaggioso per le donne. Il pensiero comune è ancora quello che una donna debba restare a casa con la famiglia. Non è così semplice accedere alle politiche di conciliazione, ridurre l’orario di lavoro. Lavorare meno ore a oggi significa infatti guadagnare meno. È il sistema che non funziona: qualora si volesse conciliare carriera e tempi di vita diventa difficile. Per le donne come anche per gli uomini, perché oltre a dover risolvere snodi fondamentali, bisognerebbe forzare il sistema stesso. Esempio concreto sarebbe riconoscere eguale importanza a paternità e maternità. Ragionare anche sul linguaggio e sulla comunicazione favorisce immaginari diversi che ci possono aiutare a uscire fuori da quegli stereotipi che ancora ci ancorano tutti, tutte e tuttə».