Vintage, second hand, preowned. Queste sono oggi le parole chiave dell’industria della moda, al punto che certi brand, pur vendendo capi nuovissimi, adottano un’allure vintage. È il caso di Gucci, che elevando l’estetica da mercatino dell’usato l’ha resa appetibile anche ai giovanissimi. E poi Celine, che pur mantenendo uno stile più minimale, ha utilizzato per la campagna resort elementi tipici dell’estetica retrò boho-chic (recentemente ribattezzato Cottagecore).
Per capire meglio quest’esplosione dell’usato è opportuno fare un salto indietro nel tempo visto che la moda segue dei cicli e, come la storia, si ripete. Quello che oggi viene chiamato mix-match, o metissage, e che ha come caratteristica quella di mescolare stili e decadi, non è una novità. È comparso nuovamente qualche stagione fa sulle passerelle facendo la gioia di tutti i vintage retailer. La prima collezione disegnata con questo stile risale al 1971, è firmata Yves Saint Laurent e, ai tempi, fece inorridire il pubblico. Lo stilista francese portò in passerella pellicce colorate, giacche oversize, gonne al ginocchio, fiori finti e trucco pesante. La critica lo stroncò per un semplice motivo: quello stile, all’apparenza così raffazzonato, ricordava troppo quello in voga durante la Parigi occupata, quando le donne setacciavano i mercatini delle pulci in cerca di vestiti e vecchi cosmetici. In realtà l’obiettivo di Saint Laurent, più avanti rispetto ai tempi, era quello di strizzare l’occhio alle nuove generazioni che, scevre da memorie di oppressione, flirtavano già con il retrò della Nouvelle Vague. Quella collezione, chiamata Libération, incarnava lo spirito del vintage di oggi: rendere nuovo, o meglio ancora timeless, il vecchio. Data la sua natura, questo stile funge da indicatore economico-sociale. Emerge infatti solitamente in tempi di crisi e, oggi come allora, nasce dal fare di necessità virtù. Non ci sono soldi da spendere in lussi, o si preferisce non spenderli per parsimonia, pertanto si comprano capi usati, si rovista nelle soffitte, si mixa, si rattoppa e si ricicla.
Il fattore riciclo è l’altro elemento trainante. L’impatto devastante della moda sull’ambiente è ormai cosa nota, anche se ripeterlo non fa mai male. A muovere l’industria del secondhand, oltre alla volontà di spendere meno, c’è anche un reale desiderio di consumare meno e meglio. Insieme al mercato del preowned cresce infatti anche la ricerca del prodotto di qualità, fatto con materiali sostenibili e/o durevoli e che, aldilà delle brevissime stagioni della moda, possa rimanere nel nostro guardaroba a lungo e, magari, essere poi rivenduto. Una delle caratteristiche peculiari dei consumatori di vintage e secondhand è infatti quella di essere spesso a loro volta anche rivenditori. E, se le boutique vintage “reali” rimangono appannaggio di personale specializzato, l’aumento esponenziale dello shopping in rete durante la pandemia ha permesso a potenzialmente chiunque di diventare reseller. Anche Il settore dell’online ha comunque diverse sottocategorie. Ci sono siti di e-commerce, gestiti da un unico rivenditore, che seguono la logica della boutique vendendo una selezione curata e tematica di capi vintage, come ad esempio gli italianissimi Morphine e Shop The Story. Poi ci sono siti quali Imprafaite Paris, Vestiarie Collective e Etsy, attraverso i quali tutti possono rivendere i propri capi ma che garantiscono comunque un certo livello di qualità del prodotto, autenticando i capi e certificando come vintage solo quelli risalenti a prima del duemila. Infine ci sono le piattaforme come Vinted e Depop, equivalente online del mercatino dell’usato, dove si mescolano shopping di seconda mano, ricerca di rarità, e, non ultimo, caccia al capo iconico a prezzi abbordabili. Come ha dichiarato infatti Dario Minutella, senior manager di Kearney, società di consulenza strategica che ha condotto la prima ricerca mondiale sul mercato del vintage con un focus particolare sull’Italia, «Quello che sta accadendo con applicazioni di successo come Vinted, è che una nuova fetta di consumatori si sta interessando a questo settore. Si va in cerca non del pezzo unico, del capo che col passare del tempo ha acquisito valore, ma dell’occasione. Della serie: l’anno scorso ho comprato quattro capi, li ho usati due volte, provo a metterli in vendita così mi rifaccio del 50% di quello che ho pagato. È una logica distante dall’idea “romantica” di vintage. Ma non è per forza negativa. In questo modo, la moda diventa circolare».
Una ricerca condotta da BCG (Boston Consulting Group) con dati raccolti da Vestiaire Collective, oltre a suggerire una crescita fino al 20% del settore second hand per i prossimi cinque anni, ha permesso di differenziare sei diverse tipologie di consumatori. La percentuale più alta (28%) è composta da persone che acquistano beni di lusso soprattutto al fine di rivenderli per acquistarne altri. Dalla ricerca si evince inoltre che il 62% dei consumatori comprerebbero di più dai marchi che stabiliscono partnership con rivenditori second hand. Per riassumere, “la moda” del vintage e del preowned è destinata a rimanere tale ancora a lungo, e che i consumatori continueranno a rivolgersi ai player di questo settore per acquistare capi unici, a prezzi convenienti, e in maniera sostenibile; per le aziende, e anche per i singoli individui, che intendono capitalizzare in questo settore, i benefici etici ed economici sono innumerevoli.