In molti Paesi, compreso il nostro, l’aumento dell’aspettativa di vita implica una popolazione più vecchia e una vita lavorativa più lunga. Al giorno d’oggi, nel mondo del lavoro ci sono almeno quattro generazioni a confronto: Baby boomer, generazione X, Millennial e generazione Z.
Certo la coesistenza generazionale non è una novità, lo è però il contesto odierno, fatto di un progresso tecnologico senza precedenti e di una rapida accelerazione dei processi digitali. Si tratta di uno scenario che rende impensabile oggi ciò che invece era la norma fino a poco tempo fa, ovvero considerare il proprio percorso formativo concluso con il termine degli studi scolastici o universitari.
Attualmente, la competitività di lavoratori e aziende si misura soprattutto dalla loro capacità di tenere il passo con i cambiamenti, in una parola di riuscire a mantenere un aggiornamento costante delle loro conoscenze e competenze. Inoltre, per le imprese, si aggiungono ulteriori sfide connesse proprio alla capacità di coltivare, trattenere e valorizzare questi talenti all’interno del contesto lavorativo e in maniera trasversale a tutte le generazioni. Non è raro però che le aziende incontrino difficoltà nel gestire, fidelizzare, incoraggiare e far emergere i talenti, questo il più delle volte è dovuto a tutta una serie di bias che guidano la gestione del personale e che spesso si fa fatica a riconoscere e trasformare.
Quando in azienda viene assunto un giovane fresco di studi (quella figura a cui solitamente si associa il termine “talento”), lo si dovrebbe mettere in una condizione tale da favorire l’applicazione delle conoscenze che ha appena acquisito, dandogli così modo di portare innovazione e progresso all’interno di tutto l’ambiente lavorativo. Purtroppo però accade molto spesso che invece “la giovane recluta” venga inserita direttamente in un processo standardizzato, vecchio magari di decenni e non aperto al cambiamento, quell’inutile “periodo di gavetta” (altro termine mutuato dal mondo militare) che difficilmente gli permetterà di stabilire uno scambio di arricchimento reciproco con l’azienda e i colleghi.
Questo significa anche che quando il lavoratore avrà finalmente acquisito un’anzianità tale da consentirgli una qualche autonomia decisionale, le sue conoscenze saranno ormai obsolete perché il mercato del lavoro cambia a una velocità mai vista prima. In poche parole ci perdono tutti.
Nel suo articolo per il World Economic Forum, Jean-Dominique Senard, presidente del CdA di Renault, ci fa notare appunto come le nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro sfidano i modelli operativi esistenti. Si tratta di lavoratori caratterizzati da un forte desiderio di autonomia, una mente aperta, un forte spirito di squadra e una gerarchia minima. Chiedono maggiore agilità, flessibilità e cooperazione, tracciano un nuovo modello di leadership basato sulla fiducia, responsabilizzazione e trasparenza. Vale la pena di ascoltarli.
La ricerca “Talenti senza età”, realizzata da Valore D in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, ci offre invece una fotografia dei lavoratori over 50. Molte le riflessioni interessanti, come il fatto che a un maggiore equilibrio generazionale corrisponda una minore percezione di discriminazione per età. O anche che i rapporti con i colleghi under 30 non sono percepiti come equi (ovvero gli over 50 sentono di dare più di quanto ricevono), soprattutto dagli uomini.
Dalla ricerca emerge anche che sul totale del campione analizzato solo il 30,9% risulta essere un talento attivo, mentre ben il 45,7% è attivo ma in difficoltà e il 23,4% è un talento smarrito. L’ aspetto più rilevante però è senza dubbio il fatto che sono soprattutto fattori legati al contesto aziendale ad incidere sulla probabilità che i lavoratori siano un talento attivo o meno. Questi fattori sono principalmente tre: l’identità organizzativa, il clima organizzativo e gli scambi tra generazioni differenti.
Favorire la formazione continua e offrire un ambiente propizio per coltivare i propri talenti quindi è ciò che fa davvero la differenza tra un’azienda di successo e una destinata a restare indietro. Le soluzioni sono tante e decisamente a portata di mano. A partire dal “reverse mentoring”, una pratica aziendale che favorisce lo scambio reciproco di conoscenze e competenze tra generazioni diverse affiancando una risorsa nuova a una di lungo corso. In questo modo si favorisce il dialogo e la collaborazione perché i colleghi sono sullo stesso piano ed entrambi hanno qualcosa da imparare dall’altro.
Inoltre, anche le politiche attive del lavoro spingono in questo senso, basti pensare al Fondo per le Nuove Competenze, per citare solo uno degli strumenti messi in campo dalle istituzioni a favore di aziende e lavoratori. Un fondo che ha come obiettivo quello di andare incontro ai nuovi fabbisogni delle imprese e colmare l’obsolescenza delle competenze.
Il mondo del lavoro cambia velocemente, le nuove generazioni sfidano i modelli operativi esistenti, le vecchie hanno voglia di mettersi in gioco e imparare cose nuove, le istituzioni danno una mano. Insomma, ora tocca alle aziende fare la propria parte e stare al passo.