“Otto ore di lavoro, otto per lo svago e otto per dormire”. Era la Seconda Rivoluzione Industriale, nascevano i primi movimenti sindacali e le loro richieste si sintetizzavano in questo semplice slogan: condizioni e orari di lavoro migliori. Ed è con queste motivazioni che nacque anche la festa dei lavoratori: per celebrare le vittime che il 1º Maggio 1886 in sciopero a Chicago si batterono per il mancato rispetto della legge che prevedeva il tetto delle 8 ore lavorative giornaliere.
E oggi? Per cosa si battono i lavoratori?
Il lavoro non è più il centro della vita delle persone, il covid ha cambiato gli schemi e la proporzione 8:8:8 è diventata stretta a molti. I problemi dei lavoratori italiani però sono sempre gli stessi: salario minimo e orario di lavoro più flessibile. Ci sono ancora tanti, troppi, lavoratori ipersfruttati che prendono salari irrisori e questo si somma all’avvento dello smart working che ha inevitabilmente modificato il rapporto vita e lavoro.
Lavorare meno, lavorare meglio e soprattutto lavorare tutti. Alcuni Paesi lo hanno capito da tempo e anche se il confronto con la Germania fa storcere qualche naso, spiega bene il punto. Un lavoratore tedesco lavora in media 1.356 ore all’anno, contro le 1.723 di un suo collega italiano. Eppure la Germania conta il 79% di popolazione attiva occupata, contro il 59% dell’Italia. Mentre la Germania ha una disoccupazione del 3,8%, l’Italia si attesta intorno al 9%. Ecco dunque che il problema dell’orario di lavoro diventa ancora una volta fondamentale, il primo da affrontare se si vuole risolvere la disoccupazione.
La pandemia ha fatto emergere dinamiche che già esistevano ma che forse non erano ancora salite sul giusto palco. Ed è così che oggi più di ieri si parla di settimana corta, life-balance, smart working e grandi dimissioni, ma tutto ciò non significa che le persone non abbiano più voglia di lavorare, anzi. Le persone, e i giovani in particolare, sono iperattivi, hanno voglia di fare. Nel mentre però il divario crescente tra la qualità della vita e la qualità del lavoro, insieme all’evolversi della socialità e delle nuove tecnologie non vanno sempre di pari passo all’evolversi del lavoro. Il lavoro e la sua organizzazione anzi fanno fatica a modificarsi. Lo abbiamo visto con il primo lockdown, dove la Pubblica Amministrazione ha avuto una percentuale altissima di dipendenti in smart working, superiore al 50% e con l’aumento della loro produttività, mentre oggi quella stessa percentuale si è ridotta sotto il 15%.
Il lavoro però non è finito, il lavoro è ancora il motore che serve per vivere, esige comunque il rispetto dei diritti che i lavoratori hanno conquistato con la lotta di classe. Ancor più oggi che assistiamo a una progressiva precarizzazione della società lavorativa non più solo solo per gli operai e per gli impiegati, ma anche per i manager, per i dirigenti, per i funzionari, per i livelli direttivi. Una precarizzazione che, con le politiche economiche neoliberiste, è divenuta la chiave di volta dell’organizzazione sociale e che inevitabilmente porta a una situazione di micro conflittualità e di un senso di impotenza che si riflette anche sulla politica.
Da quel lontano 1886, il 1º Maggio si è fatto negli anni megafono di tutte le battaglie sindacali, riuscendo a portare a casa non poche conquiste. Dopo la Seconda guerra mondiale, con trent’anni di economia keynesiana e con diverse vittorie, i lavoratori in Italia sono arrivati nel 1970 allo Statuto dei lavoratori e nel 1977 alla riforma sanitaria, sono arrivati a ottenere notevoli progressi sottolineati sempre simbolicamente dalla stessa data: il 1º Maggio. Dopo quegli anni però abbiamo conosciuto una sterzata di 180 gradi. La politica economica di Keynes è stata soppiantata da quella neoliberista che ha raggiunto il suo culmine negli anni Ottanta nell’America di Reagan e nell’Inghilterra della Thatcher. Il neoliberismo ha imposto a tutto l’Occidente un’economia basata sul mercato e sulla concorrenza, in cui la lotta di classe dei poveri contro i ricchi si è invertita nella lotta di classe dei ricchi contro i poveri a tal punto che il magnate Warren Buffett ha dichiarato. «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo». Da quel momento in poi, con l’arretramento della condizione dei lavoratori, il 1º Maggio ha perso piano piano il suo smalto, diventando qualcosa di molto meno simbolicamente significativo.
La domanda a questo punto ci sorge quasi spontanea. Cosa aspettarsi da questo 1º Maggio 2022?
Non è neanche lontanamente paragonabile ai precedenti. I problemi propri della classe lavoratrice cadono in mezzo a quelli planetari della pandemia da un lato e della guerra in Ucraina dall’altro. È un 1º Maggio carico di due emergenze in più, con tutti i risvolti che ne derivano sul lavoro, sull’occupazione, sulla sicurezza dei popoli e sulla qualità della vita. Ci ritroveremo davanti a un autunno in cui le risorse disponibili, in particolare quelle di gas e petrolio, saranno minime mentre noi non saremo ancora pronti a ridurre i nostri fabbisogni energetici.
È un 1º Maggio in cui i lavoratori dovranno trovare una nuova forma di lotta per evitare di essere trasformati in capri espiatori di colpe altrui.