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Il reporter, cronache dal fronte. Intervista a Francesco Semprini

Scritto da Alberto Chiumento | 16/05/22 12.17

«Tengo un iPad nella tasca del giubbotto antiproiettile. Così nei momenti di tranquillità scrivo i pezzi e mi porto avanti con il lavoro. Il telefono è comodo per mille motivi, fa video di qualità adatti alla televisione, ma è troppo piccolo per poterci scrivere a lungo», così Francesco Semprini, giornalista per La Stampa e corrispondente di guerra da 13 anni, descrive parte della sua quotidianità in Ucraina. 

Appena tornato dopo 40 giorni di attività giornalistica sul campo, LINC lo ha raggiunto per parlare con lui del ruolo del corrispondente di guerra. Un lavoro unico per le abilità, il coraggio richiesto e l’importanza delle notizie trasmesse. Ma che negli ultimi anni ha vissuto un momento di flessione. Molte guerre, infatti, si sono svolte lontano dai confini europei riducendo l’interesse e la contestuale crisi di ricavi dei giornali ha portato molte testate a utilizzare con minore frequenza i corrispondenti visti anche gli alti costi dell’attività (soprattutto viaggi e assicurazioni). 

La guerra in Ucraina, però, ha eliminato almeno in parte queste condizioni e i giornali, come anche le televisioni, sono tornati a impiegare i corrispondenti di guerra. 

Il reporter

Secondo Semprini, il corrispondente di guerra possiede un compito cruciale: quello di raccontare una situazione estrema, spesso complessa e fuori dall’ordinario, con la necessaria lucidità e senza troppa emozionalità. «Cerco di raccontare la guerra portando il lettore dove vado io, descrivendo quello che vedo e che sento senza filtri. L’obiettivo è produrre un racconto di prima mano, diretto, asciutto, che permetta la comprensione della realtà».  

«Fare il giornalista di guerra richiede molto coraggio ed è qualcosa che uno deve sentire e che non può essere imposto. Capita di avere molta paura e di non sapere cosa succederà. È necessaria una preparazione specifica, che permetta di valutare le circostanze e i pericoli potenziali. Non sempre, però, basta perché ci sono molte variabili incontrollate o incontrollabili, che contribuiscono a rendere questa attività giornalistica diversa da tutte le altre e straordinario il lavoro svolto in queste condizioni», dice Semprini. 

Non tutti interpretano il lavoro del reporter allo stesso modo però. Proprio come raccontava già negli anni ’90 Tiziano Terzani, noto giornalista italiano e reporter di guerra basato in Oriente, alcuni preferiscono non uscire dall’hotel, raccontando la realtà locale senza averla sperimentata in modo diretto. «Questo è tutt’ora valido – dice Semprini – sia per indole personale di alcuni giornalisti sia perché alcuni media per motivi aziendali vogliono contenere al massimo il rischio per i propri dipendenti». 

Quotidianità 

Il corrispondente di guerra rappresenta gli occhi della redazione sul campo, cui non solo manda articoli ma anche informazioni dirette. Per chi interpreta questo ruolo in modo attivo la giornata tipo può essere piuttosto lunga. «Io solitamente passo quasi tutta la mia giornata fuori, visitando il più possibile e parlando con la gente: la fase di raccolta di informazioni è fondamentale per sapere ciò di cui si narra. Una volta tornato alla base, che a seconda delle situazioni può essere l’hotel, una casa privata o un rifugio militare, inizia la fase di elaborazione e produzione dei contenuti. Se si torna verso le 18 si hanno ancora circa quattro ore per terminare il pezzo prima che il giornale vada in stampa. Ma tutto può essere rallentato per ore da un semplice posto di blocco».  

Doppia realtà 

L’immersione nella realtà locale e gli stretti ritmi di lavoro rischiano di far perdere il quadro generale del conflitto. «Il rischio della doppia realtà è molto presente per chi fa questo mestiere.  È necessario quindi sia informarsi autonomamente quando si riesce, sia ricevere aggiornamenti dal proprio giornale. In Ucraina, la redazione de La Stampa me li mandava più volte al giorno, per dirmi ad esempio come erano andati gli incontri diplomatici o se l’Ucraina avesse ricevuto nuove armi». 

Semprini racconta che questo è ancora più importante quando, per poter accedere a luoghi particolarmente pericolosi o strategici, si lavora come embedded, ovvero il giornalista diventa parte integrante dell’esercito. «In questo caso sei solo tu, i tuoi nuovi commilitoni e gli avversari che a volte possono essere molto vicini. La tua realtà è completamente assorbita da quella piccola porzione di campo di battaglia per cui è necessario che qualcun’altro ti aggiorni». 

Oltre alla redazione con cui la comunicazione è costante, per i reporter di guerra sono fondamentali anche i fixer. «Sono persone locali che ti aiutano con la lingua e con gli spostamenti. Devono anche essere in grado di trovare fonti o storie interessanti. Essendo locali si espongono a grossi rischi, ma muoversi senza loro sarebbe quasi impossibile.» Ingaggiarne uno davvero bravo può essere complesso perché i broadcaster internazionali sono quelli che pagano meglio.  

Il nuovo interesse verso il cronista di guerra accende però un problema. «Durante l’invasione dell’Ucraina la corsa ad aver un corrispondente di guerra ha creato inflazione in questa professione. Molti pur lavorando dall’hotel si sono definiti corrispondenti di guerra ed il rischio è che la qualità delle notizie e di una professione così importante ne risentano negativamente», conclude Semprini.