«Ero uscito per andare in pausa e quando sono rientrato ho trovato sulla mia postazione un cartello con scritto a lettere maiuscole “F****O”. Tutti i colleghi intorno ridevano, è stato come se il pavimento si fosse aperto sotto i miei piedi», racconta G., ex impiegato Asl. «Avevo 23 anni e mi ero appena affacciato al mondo del lavoro, mi sono sentito in imbarazzo, vulnerabile, isolato. In una parola: discriminato. Il pensiero di continuare a lavorare in quel posto mi faceva stare male ».
Oggi G. di anni ne ha 37, ha cambiato lavoro molte volte, in città diverse e in settori diversi. Eppure, mi dice, l’angoscia di non poter vivere serenamente il suo orientamento sessuale a lavoro è una questione che resta irrisolta. Purtroppo quella terribile esperienza è stata solo la prima di molte.
Discriminazione e mondo del lavoro
Secondo l’ultima ricerca Istat-Unar sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+, almeno 1 persona su 5 dichiara di essere stata svantaggiata nel proprio percorso lavorativo a causa dell’orientamento sessuale, mentre 1 persona su 6 è stata vittima di episodi di micro-aggressione sul luogo di lavoro.
Ne abbiamo parlato con Stefano Bucaioni, presidente di Omphalos, associazione per la promozione dei diritti LGBT+: «Esistono diversi livelli di discriminazione. Alcuni episodi si manifestano dopo un po’ di tempo, quando inevitabilmente emergono particolari della propria vita privata che vengono condivisi con colleghi e superiori» ci racconta Bucaioni, «altri invece, si presentano sin dalla fase di accesso e selezione al mondo del lavoro».
La paura di subire episodi di emarginazione e discriminazione spinge molti a nascondere questa parte così importante della propria vita. A volte però è impossibile nascondersi. «Penso alle persone transgender», continua Bucaioni, «vuoi per una questione di fisicità, vuoi per via del nome sui documenti, si ritrovano spesso ad affrontare una vera e propria barriera all’ingresso nel mondo del lavoro».
L’Omphalos, così come molte altre associazioni, ha collaborato con Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali a Difesa delle Differenze) alla raccolta dati per l’indagine Istat e ha recentemente inaugurato proprio un centro contro le discriminazioni. «L’Unar da quest’anno ha finanziato e sostenuto una serie di centri antidiscriminazione in Italia, una trentina in tutto», aggiunge ancora il presidente dell’Omphalos, «all’interno di questi centri ci sono sportelli dedicati all’orientamento al lavoro e al sostegno contro la discriminazione sui luoghi di lavoro».
È la prima volta che viene finanziato in Italia un progetto di questo tipo, si tratta di un passo importante. Infatti, nonostante in Italia l’unica legge per combattere la discriminazione legata all’identità di genere e all’orientamento sessuale sia stata emanata proprio in riferimento al mondo del lavoro, «siamo purtroppo ancora molto indietro» dice Bucaioni, «perché occorre innanzitutto promuovere una cultura del rispetto ed è importante che quando si subisce un episodio di discriminazione sul luogo di lavoro ci si rivolga subito ai propri superiori (a meno che non siano proprio loro gli agenti) e alle associazioni di categoria presenti sul proprio territorio».
Aziende più inclusive, aziende migliori
Il Diversity Brand Index 2022 ci dice che in Italia le aziende più inclusive sono le grandi aziende e le multinazionali. Considerato però che il tessuto imprenditoriale italiano è fatto principalmente da PMI, come allargare il cerchio della lotta alla discriminazione sui luoghi di lavoro?
Lo abbiamo chiesto a Igor Šuran, direttore esecutivo di Parks – Liberi e Uguali, un’associazione senza scopo di lucro di datori di lavoro impegnati nell’inclusione con focus specifico sull’orientamento sessuale e l’identità di genere.
«È necessario sviluppare la consapevolezza e poi creare le competenze» afferma Šuran, «spesso accade che le PMI siano realtà molto piccole, il più delle volte a conduzione familiare e legate al territorio in cui operano, lamentano la mancanza di risorse e strumenti per occuparsi adeguatamente del tema».
«Ed è qui che entrano in gioco le multinazionali», ci spiega ancora Suran, «che hanno tra i loro fornitori proprio le PMI e quindi l’occasione di scegliere aziende virtuose e sensibili al tema della diversità». Stiamo parlando della Supplier Diversity, ovvero un programma aziendale che incoraggia l’uso di piccole imprese proprietà di minoranze, di donne, di persone LGBT+, di categorie discriminate. Una realtà già avviata in altri paesi e che in Italia ha iniziato a farsi strada solo negli ultimi anni.
Un altro strumento indispensabile è creare occasioni di confronto e dialogo con le PMI attraverso le realtà con cui sono frequentemente in contatto, come le associazioni di imprenditori e gli enti sul territorio. «È importante spiegare la differenza tra non discriminare e includere» continua Šuran, «perché includere vuol dire rispondere alle necessità delle persone, non trattare tutti allo stesso modo».
Di recente Parks è arrivata alla sesta edizione del suo Parks LGBT+ Diversity Index, uno strumento di benchmarking su politiche e pratiche aziendali attuate per i dipendenti LGBT+. Una vera e propria check list per le aziende che permette loro di conoscere quanto fanno e quanto ancora possono fare per promuovere l’inclusione.
È importante anche raggiungere la consapevolezza che le buone pratiche legate alla promozione della diversità e dell’inclusione non sono un “in più” di cui occuparsi se si ha tempo, ma una parte integrante e determinante del proprio business. Il direttore esecutivo di Parks conclude ricordandoci anche i vantaggi per le aziende: «si attraggono i migliori talenti perché oggi le nuove generazioni prediligono le aziende inclusive, si favorisce l’innovazione che, come sappiamo, è il motore del successo, si trattano meglio i propri clienti e si alza il livello della qualità, inoltre» aggiunge Šuran, «le grandi aziende possono sostenere la mobilità internazionale dei propri dipendenti e diventare agenti promotori di una catena virtuosa».
Parole al lavoro
Tra gli strumenti che le aziende hanno per promuovere l’inclusività c’è anche l’utilizzo delle parole più appropriate. Il report “Words at Work” di ManpowerGroup ci offre a questo proposito una guida al corretto utilizzo dei pronomi e ci ricorda che in un recente studio si è evidenziato come «tra giovani transgender l’utilizzo di nomi e pronomi corretti riduce il rischio di depressione e suicido», una questione tuttaltro che irrilevante quindi. Sempre nel report si possono trovare anche dieci idee concrete per rendere la propria azienda più inclusiva, ad esempio cosa caratterizza una politica aziendale DEIB (diversity, equity, inclusion and belonging) o i vantaggi che ci offrono le nuove tecnologie o ancora il ruolo determinante di chi ricopre posizioni dirigenziali.