Il prossimo primo luglio sarà un giorno che le calciatrici italiane non dimenticheranno mai. Quella data segnerà infatti l’inizio di una nuova era per il calcio femminile, che entrerà ufficialmente nel professionismo. Il 26 aprile 2022, il Consiglio Federale della Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc) ha modificato all’unanimità le normative necessarie perché la Serie A femminile diventi, a partire dalla stagione 2022/23, a tutti gli effetti un campionato professionistico. «Oggi è una giornata importante» ha dichiarato il presidente della Figc, Gabriele Gravina, «finalmente abbiamo delle norme che disciplinano l’attività e l’esercizio del professionismo nel calcio femminile. Siamo la prima federazione in Italia ad attuare questo importante percorso». Un percorso importante, ma anche lungo. L’anno della svolta è stato il 2019, ovvero quando i Mondiali in Francia hanno acceso l’attenzione mediatica sul calcio femminile. Nella stagione successiva, ad assistere a Juventus-Fiorentina allo Stadium c’erano oltre 40mila persone. Numeri record il cui impulso è stato stoppato dallo scoppio della pandemia, e che restano comunque ancora lontani dai 91mila spettatori registrati al Camp Nou per una partita del Barcellona nella Women’s Champions League 21/22. Il passaggio al professionismo è però un tassello fondamentale per continuare nel processo di crescita del calcio femminile. Ma cosa significa professionismo?
Fino a oggi il calcio femminile, compresa la Serie A, era equiparato a quello dilettantistico. Di conseguenza i compensi che le società riconoscevano alle proprie atlete erano elargiti sotto forma di rimborso spese o accordi privati. Pur svolgendo di fatto un lavoro a tempo pieno, mancava un contratto che potesse garantire compensi previdenziali, tutele assicurative e contrattazioni collettive. Con il passaggio al professionismo, le calciatrici avranno uno stipendio minimo che varia a seconda dell’età: 20mila euro annui se hanno meno di 19 anni, 26mila euro se ne hanno più di 24. Le atlete potranno inoltre godere di tutele sociali come il congedo di maternità. Al momento a sostegno delle calciatrici in maternità c’è solamente un fondo da tre milioni di euro, istituito nel 2018 per permettere di continuare a percepire uno stipendio anche durante il periodo di congedo. Per le calciatrici delle serie inferiori, invece, andare in maternità equivaleva al ritiro dall’attività sportiva. Questo avveniva perché le società, a qualunque livello, non erano legalmente tenute a garantire alcuna forma di tutela contrattuale. L’esempio del congedo di maternità è emblematico per comprendere le condizioni di lavoro, precarie e degradanti, che le calciatrici italiane hanno dovuto sostenere fino a oggi.
Il passaggio al professionismo porterà con sé ovviamente anche costi maggiori per i club, con le società minori, già in difficoltà a causa degli effetti della pandemia, che rischiano il fallimento. L’aumento degli stipendi minimi e un’aliquota fiscale al 24% sono infatti solo alcuni dei costi che i club dovranno sostenere, e che mettono in discussione l’esistenza stessa di società che non possono contare su introiti elevati: tutti i costi saliranno infatti di almeno il 30%. Centrale diventa quindi il tema della sostenibilità economica. La Federazione ha già sottoscritto una convenzione con il governo per la concessione di fondi per sostenere i club maggiormente in difficoltà con il passaggio al professionismo, ma lo scenario più probabile rimane la cessione del titolo sportivo a club storicamente maschili con maggiori disponibilità economiche. Società che così possono ereditare categoria e calciatrici, entrando nel mondo del calcio femminile senza cominciare da zero.
Con il passaggio al professionismo il calcio femminile italiano cerca quindi di dare un impulso al proprio movimento. In termini di diritti tv, sponsorizzazioni e soprattutto partecipazione. In Italia al momento sono circa 31mila le atlete tesserate dalla Figc, numeri bassissimi se rapportati ad altri Paesi. In Germania il numero delle tesserate ha raggiunto il milione, in Canada sono 350 mila, in Francia 90 mila, in Inghilterra 80 mila, per non parlare degli Stati Uniti dove le ragazze che giocano a calcio sono più di 15 milioni. Non è un caso che questi numeri si vedano non solo nei Paesi con le squadre – e le Nazionali – più forti al mondo, ma che da tempo hanno riconosciuto il calcio femminile come sport professionistico. Negli Stati Uniti si sono spinte oltre. La Federazione americana di calcio ha raggiunto un accordo storico, secondo il quale le calciatrici della Nazionale femminile riceveranno gli stessi compensi di quella maschile. Cindy Parlow Cone, presidente della Federcalcio USA, lo ha definito «un momento storico per il calcio. Questi accordi hanno cambiato per sempre il gioco qui negli Stati Uniti e hanno il potenziale di cambiare il gioco in tutto il mondo». Negli Usa il calcio femminile è da tempo uno sport professionistico, con un salario minimo annuale molto più alto rispetto a quello italiano (350mila euro). Il movimento è tra i più evoluti al mondo, tanto che la Nazionale americana ha vinto gli ultimi Mondiali del 2019. Il tema del gender pay gap è poi particolarmente attuale anche in Italia, visto che lo stipendio minimo annuale di una calciatrice professionista di Serie A equivale a quello di un calciatore di Serie C.