Disclamer: questo articolo è scritto da una mamma freelance di un ricciolone duenne, 85 cm di energia che non necessitano di ricarica (orario nanna 11 pm, orario sveglia 6 am); ore di lavoro della mamma indefinite (tra 10/12 al giorno); organizzazione quotidiana: nessuna possibilità di welfare familiare, bilanciamento strategico tra asilo nido e tata. Voglia di rinunciare a qualcosa? Non pervenuta.
Chi ha stabilito che a un certo punto avremmo dovuto scegliere? Scegliere se diventare madri o se realizzarci nel lavoro. Scegliere se accettare la sfida di crescere un altro essere umano o se investire tutte le nostre energie nella carriera. E, soprattutto, chi ha stabilito che questa scelta sarebbe stata una prerogativa solo femminile? Conciliare, integrare, bilanciare maternità e lavoro, non è semplice. Anzi, diciamolo pure chiaramente: è come correre una maratona senza prima aver allenato gambe e polmoni. Così, le mamme lavoratrici, quelle che – imperterrite – non hanno ceduto all’aut-aut, si ritrovano a essere sempre in ritardo (con sé stesse, più che gli altri) e campionesse mondiali di sensi di colpa (con gli altri, più che con sé stesse), senza essere mai abbastanza, nella vita privata tanto quanto nel lavoro. Quest’ultimo, in particolare, diventa improvvisamente un terreno scivolosissimo in cui la dimensione materna bisogna gestirla a piccole dosi, valutando con chi, come e quando esporla. Quasi come fosse una pillola dagli effetti collaterali. «Attenzione: esplicitare che si è mamme potrebbe ridurre le vostre chance di carriera». Se la maternità avesse un bugiardino, ci sarebbe scritto senza dubbio questo.
In Giappone hanno coniato un termine ad hoc: Matahara. Significa: “molestie della maternità”, le sperimentano almeno il 20% delle donne. Donne che, una volta diventate madri, vengono accompagnate alla porta delle aziende per cui hanno lavorato in precedenza oppure declassate a mansioni inferiori. In Italia, pur non esistendo un termine simile, situazioni di questo genere sono all’ordine del giorno. Save The Children, nel suo ultimo rapporto, ci ha definite “equilibriste”. Il risultato è la fotografia di un’Italia in cui le donne scelgono la maternità sempre più tardi (32,4 anni), fanno sempre meno figli (1,25 il numero medio di figli per donna), e rinunciano al lavoro a causa dei nuovi impegni familiari (il 42,6% delle donne tra i 25 e i 54 anni con figli, risulta non occupata), con un divario rispetto ai compagni di più di 30 punti percentuali. Nel solo 2020 sono state più di 30mila le donne con figli che hanno rassegnato le dimissioni. E dove il lavoro c’è, molte volte si trasforma in part-time (per il 39,2% delle donne con 2 o più figli minorenni). Il tutto mentre, di pari passo, il Paese segna l’ennesimo minimo storico in termini di tasso di natalità: appena 399mila i nuovi nati nel 2021. Tra pregiudizi e difficoltà reali, non c’è da stupirsi. Un dato su tutti: oggi i nidi pubblici coprono solo il 12% del fabbisogno. Arriveremo – forse – al 33% entro i prossimi 5 anni, anche se questo era un obiettivo che l’Europa si era data per il 2010.
Ma attenzione, se si ha la forza e la voglia di perseverare, scegliendo sia carriera che famiglia, si scopre che la maternità può – udite, udite – essere finanche funzionale al lavoro. Come? Basta valorizzare le competenze che essa porta naturalmente con sé. Pensiamo alla capacità di ascolto, al problem solving, all’empatia, al rapporto con il potere, alla gestione del tempo e alle risoluzioni delle crisi. Abilità che, se adeguatamente valorizzate, possono generare nuove opportunità anche sul lavoro. Diventare mamma può essere, a tutti gli effetti, un corso accelerato di soft skills. Riccarda Zezza, ex manager di multinazionale e startupper non convenzionale, oggi CEO di Lifeed, ha avuto questa intuizione proprio a seguito della sua maternità e ha coniato un percorso formativo lifed based che analizza le competenze apprese spontaneamente con la maternità e spesso non riconosciute, mettendole a valore per le aziende e per le donne stesse. «Numerose ricerche dimostrano che maternità e lavoro sono reciprocamente valorizzanti: l’una diventa un’infusione di energia positiva per l’altra. Imparando a riconoscere le specificità di ognuna di queste dimensioni, possiamo rendere la vita privata una palestra eccezionale per la crescita professionale, e viceversa» – spiega Zezza. L’intelligenza emotiva teorizzata da Goleman e sempre più richiesta dalle aziende è, ad esempio, una delle competenze potenti che proprio attraverso la maternità si allena più intensamente. «Ciò che dobbiamo fare è anzitutto rompere gli stereotipi. Di conseguenza, potremo arricchire i nostri bagagli con nuove consapevolezze e skills che non saranno più lette come contrastanti le une con le altre, anzi» – continua Zezza. E attenzione, tutto questo vale, ovviamente, anche per gli uomini. «Abbiamo rilevato che quando diventano padri, gli uomini usano di più le competenze relazionali come ascolto ed empatia, sono più giocosi e non convenzionali. E riportano queste nuove competenze anche sul lavoro. La pratica – precisa l’esperta – è ciò che consente anche alle donne che non sono mamme di riconoscere e far emergere queste abilità».
Basterà per far maturare il Paese e renderlo davvero a prova di mamme – lavoratrici? «Si spera – assicura Zezza -. La pandemia ha portato molte aziende a valutare nuove dinamiche di flessibilità e integrazione. L’importante è, ora, non fare passi indietro». Staremo a vedere. Nell’attesa, noi equilibriste della “maternità + carriera”, alziamo il volume della radio: “I want it all” è tutta per noi.