Gli stipendi sono un importante strumento per confrontare sistemi economici e tenori di vita differenti. All’interno dell’Unione europea questo esercizio è ancora più facile dato che 19 nazioni hanno scelto di adottare una moneta comune.
In Italia, però, quando si osserva l’andamento degli stipendi si notano risultati poco entusiasmanti dato che la loro crescita negli ultimi 30 anni è stata praticamente nulla: un trend in netta opposizione rispetto sia ai paesi europei con cui l’Italia è solita essere paragonata, sia alle nazioni entrate più di recente nell’Unione europea.
Secondo i dati Ocse 2022, tra il 1991 e il 2021 il livello medio degli stipendi in Italia è cresciuto di appena lo 0,36 per cento, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia l’aumento è stato pari al 33 per cento. Alcuni paesi dell’Unione europea hanno registrato aumenti anche maggiori: gli stipendi in svedesi sono cresciuti del 72 per cento e quelli irlandesi del 82 per cento. La divergenza risulta ancora più netta se si considera che nel 1991 Italia e Francia partivano dallo stesso punto di partenza dato che il livello medio degli stipendi era per entrambi appena inferiore a 30 mila euro annui (a prezzi del 2021). In Italia, quindi, i salari ristagnano da moltissimi anni.
Se si accorcia l’orizzonte temporale di un anno, considerando quindi il periodo 1991-2020 – che include i singolari effetti della pandemia che però hanno pesato fortemente sulla quotidianità di molte famiglie ed imprese – si nota che addirittura gli stipendi sono diminuiti del 3,5 per cento. In Germania, la contrazione dovuta alla pandemia è stata di appena lo 0,73 per cento.
La scarsa crescita del livello medio degli stipendi è netta anche osservando le variazioni annue dei salari. Una valutazione del genere è utile perché confronta diversi anni, che essendo contigui tra loro, sono influenzati dagli stessi avvenimenti politici ed economici. La serie storica italiana delle variazioni annue degli stipendi, tra il 1991 e il 2021, è un continuo alternarsi di percentuali positive e negative: non c’è un netto andamento verso l’alto, come invece registrato dalla Germania, dove tra il 2009 e il 2019 gli stipendi sono aumentati per undici anni consecutivi, o dalla Francia, che nello stesso periodo ha registrato soltanto due anni in cui i salari si sono ridotti.
In Italia, se si esclude la crescita degli stipendi avvenuta nel 2021 per via del rimbalzo dovuto alla ripresa economica post pandemica, la maggiore crescita annua degli stipendi è stata registrata nel 2004, quando in dodici mesi gli stipendi sono aumentati dell’1,94 per cento. E l’anno successivo, il 2005, è stato l’ultimo con una crescita superiore all’1 per cento. I principali momenti di riduzione degli stipendi, invece, si osservano sia nei primi anni ‘90, quando ci furono 4 anni consecutivi di riduzione, e nel biennio 2011-2012 (-1,61 per cento e -3,16 per cento) in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani in Europa che coinvolse in modo netto anche l’Italia.
Ma perché gli stipendi in Italia non riescono a crescere? I motivi sono molti e differenti, ma tra le principali cause c’è la stagnazione della produttività, che ad esempio tra il 2014 e il 2020 è cresciuta solo dello 0,5 per cento, il progressivo aumento di forme di lavoro instabili e l’incapacità del mercato del lavoro italiano di inserire i giovani lavoratori in modo stabile sin da subito (https://www.lincmagazine.it/2022/04/20/tirocini-extracurriculari-tutte-le-novita/), ritardandone la crescita sia personale sia economica. La mancata crescita degli stipendi crea ulteriori problemi, come ad esempio la diffusione dei working poors (https://www.lincmagazine.it/2022/04/11/quando-la-formazione-fa-gol-un-programma-che-garantisce-il-lavoro/), quei lavoratori che pur avendo un lavoro hanno difficoltà a permettersi spese essenziali.
In realtà, la stagnazione dei salari è un fenomeno che da alcuni anni colpisce quasi tutte le economie avanzate ed è in parte un effetto collaterale della globalizzazione, che ha favorito lo spostamento di molti compiti e attività dove il costo del lavoro è molto inferiore, come ad esempio in Asia.
Tuttavia, in Italia il fenomeno è particolarmente duraturo e profondo: ed è anche dovuto anche all’incapacità del tessuto economico di eseguire un avanzamento tecnologico. Gli investimenti in ricerca e sviluppo in Italia sono pochi – nel 2017 l’Italia investiva solo l’1,35 per cento mentre la media europea era del 2 per cento – anche a causa di un settore industriale che investe poco in tecnologia perché composto soprattutto da piccole o medie imprese, che non hanno le risorse e le dimensioni per sostenere investimenti così costosi e prolungati nel tempo. Un modo per avviare la crescita dei salari in modo stabile è quello di procedere con riforme e investimenti, e il Pnrr è già un’ottima opportunità da non perdere.