Parliamo di longlife learning. Il rapido sviluppo della Cina è uno dei cambiamenti più importanti e interessanti della storia contemporanea. Dalla fine della Seconda guerra mondiale ai primi anni ’70 il Paese non aveva alcun rapporto diplomatico diretto con l’Occidente mentre ora è la seconda potenza mondiale grazie a una crescita economica senza precedenti: negli ultimi trent’anni il tasso di crescita annuo del PIL non è mai sceso sotto il 5 per cento e ha raggiunto picchi anche del 14 per cento come nel 1992 e nel 2007.
Questa crescita è avvenuta grazie a politiche statali di liberalizzazione e di apertura industriale e commerciale verso l’esterno: sono così aumentati sia gli investimenti statali sia quelli dall’estero. Le riforme statali, tra cui l’estensione dei diritti di proprietà, hanno favorito lo spostamento di molti lavoratori dal settore agricolo a quello manifatturiero: in questo modo la forza lavoro ha vissuto un upskill delle capacità e aumentato la propria produttività. La grande disponibilità di manodopera, spesso a basso costo, è stato un ulteriore elemento della crescita cinese, che si è basata soprattutto sulla produzione ed esportazione di beni manifatturieri tanto da essere soprannominata la fabbrica del mondo.
Con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, il governo cinese si è però reso conto di dipendere troppo dai paesi esteri e dalla loro domanda di merci e beni industriali. Ha così cominciato ad avviare una serie di riforme per ridurre il peso dell’export sull’economia e favorire la nascita di un’industria nazionale matura, guidata soprattutto dai servizi e dall’innovazione e in grado di soddisfare principalmente i consumi del mercato nazionale.
Fare questo drastico cambiamento non è però semplice. Alcune criticità riguardo il mercato del lavoro e le capacità dei lavoratori lo potrebbero rallentare, come segnalato dalla società di consulenza McKinsey nel suo report Reskilling China: Transforming the world’s largest workforce into lifelong learners.
Nel documento vengono descritte «tre transizioni che combinandosi rappresentano una trasformazione senza precedenti per il mercato del lavoro cinese». La prima riguarda l’occupazione: «entro il 2030, fino a 220 milioni di lavoratori cinesi potrebbero essere costretti a cambiare occupazione». Il numero è considerevole anche per gli standard cinesi: circa il trenta per cento della forza lavoro nazionale potrebbe dover cambiare mansione.
Il secondo aspetto riguarda le abilità dei lavoratori: la diffusione dell’automazione potrebbe rendere superflue «circa 516 miliardi di ore di lavoro umane» e «la domanda di lavoro manuale o fisico potrebbe diminuire del 18% entro il 2030». Proprio sull’automatizzazione ha puntato molto il governo cinese che, all’interno del piano di sviluppo economico Made in China 2025 intrapreso nel 2015, individua i settori della robotica, della digitalizzazione e della manifattura smart come iniziative strategiche.
Il terzo aspetto è l’equità: i lavoratori migranti in Cina (cioè coloro che si muovono dalle zone rurali alle città per lavorare) «hanno toccato i 291 milioni nel 2019 e potrebbero raggiungere i 331 milioni nel 2030 poiché il processo di urbanizzazione cinese continua». Molti di questi lavoratori migranti però per via dell’Hukou, il rigido sistema di certificazione della residenza voluto dal governo, non hanno accesso a servizi di sanità o di educazione «e nei prossimi anni tra il 22 e il 40 per cento del lavoro svolto dai migranti potrebbe diventare automatizzato» lasciando molti di loro, che sono la parte più fragile della popolazione, senza occupazione.
Queste difficoltà – qualora si verificassero – rappresenterebbero un grosso problema di ordine sociale per il governo nazionale. Anche perché uno dei concetti più usati di recente dal Presidente Xi Jinping è quello di prosperità comune, ovvero l’obiettivo di redistribuire meglio la ricchezza prodotta dal Paese dopo anni di incredibile crescita economica specialmente nel settore privato.
Tra i modi per evitare queste criticità, c’è il reskill dei lavoratori, che non possono essere lasciati con competenze obsolete e manuali in un settore che si sposta sempre di più verso modalità digitali. Arriviamo ora al concetto di longlife learning. Corsi in azienda, personali o su piattaforme online possono essere strumenti utili per adattare le competenze allo sviluppo digitale: è quello che viene definito dagli studiosi longlife learning, cioè l’abilità di continuare ad apprendere nozioni e abilità anche dopo aver concluso le scuole e di sapersi adattare a nuovi contesti lavorativi.
A livello scolastico invece la Cina potrebbe agire adattando i programmi alle richieste di conoscenze che arrivano dal mondo. Ad esempio, dice il report, la Cina potrebbe aumentare gli investimenti nelle scuole tecniche e pratiche, come fatto con successo da Singapore negli anni ’80.