Difficile trovare chi metta in dubbio l’impatto umano sul cambiamento climatico, dopo l’estate che si sta concludendo in questi giorni. Quindi in teoria la riduzione più rapida possibile delle emissioni non dovrebbe trovare nessuno in disaccordo.
Da qualche anno però sappiamo che questo è un errore. Una trasformazione ecologica molto veloce ha dei costi molto alti e non parliamo soltanto dell’implementazione delle nuove tecnologie nelle aziende, nelle abitazioni private o nei mezzi di trasporto. Se andiamo indietro di qualche anno, ricordiamo il voto a Donald Trump delle comunità dell’indotto dell’industria estrattiva del carbone negli Appalachi e la rivolta dei gilet gialli contro le politiche energetiche di Emmanuel Macron. La percezione allora è che queste scelte venissero scaricate contro la parte più debole della società e che colpissero i posti di lavoro in modo sproporzionato. Non è sfuggito a forti critiche nemmeno il piano europeo Fit for 55. Si tratta di un piano dell’Unione Europea varato nell’ottica del raggiungimento della neutralità climatica punta a una riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030 che prevede anche la messa al bando dei motori a combustione endotermica, ovvero quei veicoli alimentati a benzina e diesel che comprendono non solo le auto e i furgoni di uso comune, ma anche produzioni di nicchia come quelle ospitate nella Motor Valley emiliana che comprendono quindi Ferrari, Maserati, Lamborghini e McLaren. Full Electric anche per loro. Nel 2026 si farà un tagliando a questo piano, per capire se si debbano rivedere tali obiettivi. Lo scorso anno il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani era stato estremamente tranchant: «la Valley rischia la chiusura». In un’intervista al Corriere della Sera lo scorso giugno lo stesso ministro aveva messo in luce quali sono le problematiche di questa trasformazione: «Le batterie sono l’epicentro del cambiamento. Le materie prime necessarie, il litio e altre terre rare, sono in larghissima parte presenti in Cina, per cui anche se l’Europa si impegna a costruire batterie, la sua dipendenza dalle materie prime cinesi sarà molto superiore a quella che adesso abbiamo dal gas e dal petrolio russo. Le batterie poi vanno caricate con energia elettrica rinnovabile altrimenti si perde l’effetto ambientale». Quindi un legame ancora più stretto con un regime non democratico e la necessità di implementare ulteriormente la percentuale di energia da fonti green. Di quanti posti a rischio si parla? Le stime riferiscono di ben 70mila addetti che rischiano di perdere la loro attuale mansione anche se, come fa notare Cingolani, «se ne potranno creare di nuovi con prodotti e servizi che al momento nemmeno immaginiamo». Il rischio comunque rimane e non è mai facile convincere chi lavora della bontà di future possibilità lavorative che appaiono al momento ancora aleatorie.
Anche qualora la transizione all’elettrico venisse superata senza eccessive difficoltà, c’è un altro tema che riguarda il potere d’acquisto delle famiglie: le auto elettriche sono molto più costose e in alcuni paesi europei potrebbero costare quanto un paio di anni di stipendio medio.
Certamente però si può fare qualcosa. Ad esempio, implementare l’uso dei biocarburanti sintetici, che possono consentire di abbattere le emissioni mantenendo il motore a combustione endotermica, in modo da poter continuare a utilizzare i mezzi pesanti che difficilmente potranno essere elettrificati per tempo, così come l’inflazione nei prossimi anni renderà più impegnativo per una famiglia pensare all’acquisto di una nuova auto elettrica.
Ci sono anche provvedimenti da prendere a livello europeo. Nel 2022 la Cina ha rafforzato il suo controllo dei siti estrattivi delle terre rare e l’Unione Europea potrebbe reagire creando una struttura unica per gli acquisti di questi materiali necessari per la costruzione delle batterie. Di queste, se ne dovranno produrre migliaia, aiutandosi anche con il riciclo dei rifiuti elettronici.
In conclusione, ci dovrà essere una particolare attenzione ad attuare questa transizione in un settore delicato per l’industria italiana. La recente riapertura delle rimanenti centrali a carbone a causa dei tagli alle forniture rende perfettamente chiaro che nessuna scelta può essere totalmente indolore, ma nemmeno dev’essere suicida. E in questo senso il 2026 sarà un anno decisivo per capire se certi progressi potranno essere realizzati.