Sorvegliato speciale nel mondo del lavoro, il mobbing è stato riconosciuto negli ultimi anni come fattore di attenzione nei rapporti tra il datore di lavoro e i dipendenti. Ed oggi, anche grazie alle nuove tutele normative, è considerato con molta attenzione. C’è una declinazione particolare del mobbing che spesso però non viene rilevata come tale e quindi affrontata nel modo corretto.
Si tratta del micromanagement: una forma molto sottile di prevaricazione sul lavoro che nasce dall’incapacità del “superiore” di saper delegare e quindi di sfruttare adeguatamente, e con fiducia, la ripartizione dei compiti, delle responsabilità e dei risultati.
Secondo la definizione del Cambridge Dictionary, il micromanager è colui che «cerca di controllare ogni singolo aspetto di una situazione, inclusi i minimi dettagli».
Indipendentemente dal fatto che questo modo di costruire il rapporto di lavoro sia intenzionale o meno, si tratta di una relazione lavorativa “tossica” che annienta tutte le sinergie positive legate al lavoro in team. Inoltre genera in chi la subisce gravi problemi di salute come depressione, ansia, problemi di sonno e affaticamento. Vi è inoltre associato un aumento dello stress e un deterioramento dell’autostima e della fiducia che demotiva, a lungo andare, sia i singoli, sia il team.
Secondo un sondaggio condotto da Trinity Solutions spesso questi capi vedono il burnout come il prezzo da pagare per la produttività.
In concreto, dunque, come possiamo capire se nel nostro ambiente di lavoro è di casa il micromanagement?
Questa gestione operativa si verifica quando un superiore controlla troppo da vicino e ossessivamente il lavoro dei propri dipendenti e del suo team. Concretamente ciò avviene con continue richieste di chiarimento su dettagli spesso inutili, con la richiesta di report di aggiornamento sul lavoro svolto. Inoltre, la delega dei compiti sarà solo apparente perché il prodotto del lavoro svolto sarà visto e rivisto più del necessario poiché, in generale, i micromanager sono convinti di saper fare meglio degli altri. In sostanza, dunque, bruciano la forza del team. E trovano costantemente errori nel lavoro fatto dagli altri. Sono ossessionati dai dettagli e pretendono la loro approvazione su ogni singola azione.
Difendersi si può
Purtroppo il fenomeno è più diffuso di quanto si creda. Secondo un’analisi pubblicata su LinkedIn, il 79% dei dipendenti è stato soggetto al micromanagement almeno una volta nel corso della sua vita professionale. Un dato preoccupante soprattutto se si considera che i dipendenti che subiscono questo fenomeno tendono ad avere performance inferiori almeno nel lungo periodo, come dimostra uno studio del 2011 uscito sulle pagine del Journal of Experimental Psychology.
Come nel caso del mobbing, anche se si tratta di una forma meno lesiva della persona, il micromanagement può essere ridotto o affrontato con la giusta strategia.
Una buona tattica da adottare è decidere sin dall’inizio dei progetti in maniera molto precisa a che livello saranno coinvolte le parti: mettendo così dei precisi confini. È poi possibile lavorare, di base, sulla fiducia. Offrirsi di prendere a carico dei lavori o dei progetti che siamo sicuri di essere capaci di realizzare può aiutare. Questo permetterà di aumentare la confidenza e le abilità nel delegare i compiti. È poi importante fare in modo di comunicare i progressi al capo con regolarità, per scoraggiare eventuali ricerche di informazioni. L’ultimo tentativo attuabile è quello di portare il micromanager a vedersi dall’esterno. Esistono alcuni quesiti che possono aiutare a prendere consapevolezza del suo comportamento. «Hai assegnato a quel collega quel preciso lavoro, ma sto vedendo che stai portando avanti tu la gestione dei processi e controllo, come mai?» Frasi come questa aiutano a far emergere il problema.
Gli errori più comuni
Che si sia dal lato del dipendente o del manager il primo errore da evitare quando si parla di micromanagement è quello di assimilarlo al management in generale, come se la “micro-gestione” fosse l’unico modo per guidare il team in modo efficace. Il secondo fraintendimento è quello di considerarsi immuni da questa pratica in veste di manager o imprenditori.
Il terzo errore consiste nell’adottare una politica opposta, di laissez faire come viene definita in un recente articolo uscito sulle pagine di Harvard Business Review, nella convinzione che sia l’antidoto più efficace per non cadere nella trappola del micromanagement.
Se infatti la micro-gestione produce effetti collaterali profondamente negativi, non significa che le persone non abbiano bisogno e non sentano la necessità di essere supportate attivamente. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra la giusta dose di controllo e guida e la libertà d’azione che può e deve essere lascia al team.