Il termine giapponese è karoshi, letteralmente “morte da lavoro eccessivo“, nel resto del mondo invece questo fenomeno è noto con l’inglesismo di workaholism, sincrasi nata nel 1971 tra work e alcoholism, e che ben suggerisce quella dipendenza ossessiva-compulsiva rispetto al proprio lavoro. Non sempre però le troppe ore sono dovute agli straordinari, spesso dietro al troppo lavoro si nasconde infatti una vera e propria patologia.
Uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), realizzato prima della pandemia e presentato nel 2021, sostiene che ogni anno in tutto il mondo 745 mila persone muoiono a causa del troppo lavoro. Lo studio sottolinea la preoccupazione soprattutto per chi si trova a svolgere più di 55 ore settimanali.
Abbiamo chiesto a Serena Valorzi, psicoterapeuta esperta in dipendenze comportamentali, di dirci qualcosa di più su questo fenomeno e sui rischi per la salute.
Che cos’è il workaholism?
«Si tratta di una patologia in cui chi ne è affetto mette il lavoro letteralmente al centro della propria vita. Così come accade per altre forme di dipendenza, si sperimenta un calo di energia, attenzione ed entusiasmo per altri aspetti (famiglia, affetti, interessi), fino a una vera e propria scomparsa del desiderio di esplorazione ed esperienza. Il lavoro è la bilancia con cui si misura il proprio valore come persona, costantemente ci si interroga se si è svolto bene un certo compito, se si è raggiunto un obiettivo o si sono rispettati determinati standard; se la risposta è negativa la percezione di sé stessi è scarsa e l’autostima si abbassa».
Quali potrebbero essere le cause scatenanti?
«Ľinfluenza di un modello sociale e culturale di riferimento, che associa il tanto lavoro al denaro e al prestigio, non aiuta. Chi è considerato “un gran lavoratore” è visto positivamente. Si è costantemente spinti a ricercare questo atteggiamento di sforzo e assiduo sacrificio, come se fare bene il proprio lavoro fosse sinonimo di perfezione e di grande valore. In realtà è proprio la scarsa percezione di valore e la perdita del senso della vita a spingere a riempire i vuoti con delle dipendenze, come quella da lavoro».
Quali sono i campanelli d’allarme a cui prestare attenzione?
«Sicuramente la quantità di ore lavorate, che diventano molto pervasive e in alcuni casi occupano l’intera giornata. C’è chi arriva a non dormire per lavorare. Poi si sviluppa una vera e propria ossessività legata al tema del lavoro, che diventa l’unico argomento di conversazione: penso costantemente a quello che ho fatto, a come l’ho fatto e a quello che devo fare. Inoltre, come per tutte le patologie legate alla dipendenza, si tende a caricare sempre di più: lavoro più ore, voglio essere più produttivo, e così via. Si inizia a perdere la lucidità, non si riesce più a tenere a bada l’ansia per una vita dove, a parte il lavoro, non è rimasto nient’altro. Nonostante venga definita una dipendenza “pulita”, perché non implica l’uso di sostanze, gli effetti non sono molto diversi da quelli che si manifestano in altre patologie legate alla dipendenza: confusione, isolamento, perdita di contatto con la realtà, per dirne alcuni».
Quali sono le conseguenze per la salute?
«Sono molte le patologie sanitarie correlate, come i disturbi del sonno, l’obesità, i disturbi di ansia e depressione, problemi dermatologici e complicazioni respiratorie, come l’asma. Per non parlare del rischio elevato di ictus e infarto, di base quindi tutte le patologie collegate al troppo stress. Si vive in una condizione di costante tensione, come gazzelle circondate dai leoni, dove adrenalina e cortisolo (gli ormoni dello stress) sono prodotti in eccesso, a danno dell’ossitocina, ormone della calma e dell’affetto. Tutto il corpo ne soffre».
E le conseguenze sociali?
«Sono altrettanto pesanti. Si rischia di rimanere completamente isolati e, per chi ha una famiglia, le ricadute coinvolgono sia il partner che i figli. In particolare i figli vivono una situazione di disagio crescente perché da un lato sentono la necessità di avere attenzioni, come è giusto, dall’altro si sentono in colpa perché li viene costantemente ripetuto che “si fanno tanti sacrifici per loro”».
Ci sono differenze tra uomini e donne?
«Per la mia esperienza clinica no, ma sicuramente alcuni stereotipi in questo caso favoriscono la donna rispetto all’uomo. Nel senso che è più facile accorgersi della patologia per queste ultime, dato che sono costantemente messe davanti alla necessità di “non trascurare la famiglia”, invece per gli uomini è diverso. Siamo cresciuti tutti sentendoci dire che “il papà deve lavorare”, quindi è più difficile prendere consapevolezza di un problema, sia da parte del soggetto che della sua famiglia».
Qual è il punto di non ritorno?
«In molti casi è proprio il medico a mettere in guardia, a suggerire di rallentare. In altri sono le persone intorno a me a farmi notare che sono costantemente irritabile e sotto pressione. Oppure è la mia famiglia a dirmi che non ne può più. Altre volte la presa di coscienza è legata a una spinta interna: mi rendo conto di sentirmi sempre in dovere, che mando le email anche alle tre del mattino o arrivo in ufficio prima di tutti, che le vacanze sono un incubo e che se per caso mi trovo in un posto in cui non sono raggiungibile ho una vera e propria crisi di astinenza».
Si parla abbastanza di questo fenomeno?
«No, se ne parla pochissimo ed è difficile avere sotto mano dei dati epidemiologici precisi. Si tratta senza dubbio di un fenomeno trasversale a tutte le tipologie di lavoro, ma di cui si fa fatica a parlare. C’è quasi come un senso di vergogna individuale e mal riposto pudore a livello sociale, in un contesto economico e sociale dove si dice costantemente che il lavoro non c’è. Peccato, perché indipendentemente dall’andamento del lavoro a livello generale, il workaholism costituisce un grave problema di salute emotiva e mentale, con ripercussioni su salute fisica, familiare, e contesto lavoro».
È un problema che riguarda anche le aziende?
«Senza dubbio. Un’azienda lungimirante non spinge il lavoratore al massimo, non solo perché eticamente non è la cosa più giusta da fare, ma anche perché paradossalmente chi lavora tanto perde molto in termini di efficienza e produttività. Chi non stacca mai, non ricarica le energie e non riposa abbastanza, non può lavorare lucidamente e commette degli errori. Giova, quindi, anche all’azienda sensibilizzare il lavoratore in questo senso».