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«Il bello di raccontare i giovani». L’intervista ad Alessandro Tiberi

Scritto da Federica Grimoldi | 05/12/22 17.19

«È sempre bello raccontare i giovani, anche se io, ormai, divento vecchio». In realtà, non è poi così immediato pensare che Alessandro Tiberi, classe 1977, una carriera da attore e doppiatore iniziata molto presto, stia “diventando grande”. Per tutti è stato, per tre stagioni e un film, “Seppia”, l’iconico stagista protagonista della serie cult Boris, tra le più amate in Italia per la sua capacità di raccontare, con rara ironia e sapienza satirica, il dietro le quinte del mondo delle fiction e dello spettacolo – e, attraverso di loro, l’Italia e le sue storture, anche nel mondo del lavoro. 

Ora, a più di dieci anni dalla terza stagione – la prima nel lontano 2007 – e dal film, Boris 4 è sbarcata su Disney+ il 26 ottobre. Un ritorno attesissimo, che vede gli autori e registi Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo (senza il compianto Mattia Torre, scomparso nel 2019) proporre lo stesso umorismo corrosivo dei tempi de Gli occhi del cuore (quando il bersaglio erano le fiction di infimo livello della tv generalista), questa volta alle prese con la famigerata “piattaforma” e il suo algoritmo. E, nella quarta stagione, anche Alessandro lo stagista è cresciuto: non è più “Seppia” ma è diventato uno dei capi.

Foto di Paola Sallustro
Alessandro in Boris 4 ha fatto carriera. Si può parlare di un’evoluzione del tuo personaggio?

«Gli autori mettono sempre Alessandro in condizioni quantomeno singolari. C’è sicuramente un’evoluzione, ma solo apparente: Alessandro passa dall’essere lo stagista di René Ferretti (il regista, interpretato da Francesco Pannofino, ndr) e dell’aiuto regista Arianna (Caterina Guzzanti) all’essere “lo schiavo” di qualcun altro, in questo caso dell’algoritmo, degli americani. È la poetica di Boris 4: l’idea che non si riescano a cambiare le cose. Il personaggio di Alessandro rimane incastrato, ma non è l’unico a restare sempre fermo».

Nel 2011 – subito dopo l’uscita del film di Boris – hai detto: «Gli autori si divertono a tenere Alessandro sempre nelle condizioni peggiori, in questo senso Boris è uno specchio dell’Italia, che rimane sempre al palo». Sono passati undici anni…

«Ah, ho proprio detto la stessa cosa?! (Ride). In effetti ti direi che anche io sono rimasto un po’ al palo… Mi sembra che, purtroppo, in questi anni le cose non siano sempre cambiate in Italia. Tra i cambiamenti che trovo c’è indubbiamente una nuova e diversa consapevolezza. La figura dello “stagista sfruttato”, ahimè, esiste. In Boris, sia la vittima sia il carnefice, sono consapevoli di questa condizione, è come se esistesse un tacito accordo: “Tu mi stai sfruttando, io mi faccio sfruttare”. Niente di più sbagliato… ed è proprio per questo che Boris lo racconta».

I dettami della piattaforma sono proprio la novità rispetto a undici anni fa, quando vi siete fermati. Come racconta Boris l’ossequio alle regole che la piattaforma richiede? Perché è vero che le norme sono più stringenti, ma come spesso succede in Italia, se nessuno controlla, si fa un po’ quello che si vuole.

«La piattaforma ha delle regole precise e molto definite. In Boris 4 viene addirittura paragonata alla mafia. Non quella propriamente detta, ma parliamo di un sistema più sottile. La piattaforma non ti ordina di fare delle cose, la piattaforma ti consiglia di farle, che è peggio perché ti lascia in un limbo decisionale. È tutto un gioco psicologico. A volte in Italia c’è anche una sorta di censura preventiva con la quale dobbiamo fare i conti, quella del “meglio non dare fastidio” e “meno si dà fastidio meglio è”. Per questo sono orgoglioso di far parte di Boris e di prendere parte alla “sua denuncia”».

Tornando indietro alla prima stagione, una delle scene più famose vede te stagista nell’ufficio del Direttore di produzione Sergio (interpretato da Alberto Di Stasio, ndr) che ti apostrofa dicendo «Contratti… ma quali contratti? Ci vuole passione!». E quando chiedi se riuscirai mai ad avere anche solo un rimborso spese ti viene risposto: «Sai, io ho qui fuori una fila di persone disposte a fare qualsiasi cosa gratis…»

«Boris fu profetico proprio perché raccontava il Paese, l’Italia, attraverso la satira del mondo delle fiction, allora molto più viste dal grande pubblico rispetto ad oggi, e grazie a questo racconto era in grado di cogliere aspetti amari della realtà, soprattutto lavorativa, spesso ancora attuali. In questi casi si crea un senso di depressione, una disillusione diffusa che percepisco nelle persone. Se è vero che la passione ci vuole, questa non deve essere usata sfruttando la risorsa e non gratificandola. Boris ha avuto il merito di raccontare questi meccanismi tanti anni fa e continua a raccontarli in Boris 4, dove il mondo del lavoro è sempre in primo piano. Boris 4 è il mondo del lavoro».

A proposito di questo, il racconto che ha sempre fatto Boris del mondo del lavoro è stata una delle chiavi del vostro successo: avete creato una forte empatia con lo spettatore. Nel tuo caso, quanto è stato importante interpretare un personaggio in cui in molti, stagisti e non, si sono identificati? 

«Quello che ho interpretato in Boris è stato sicuramente il più iconico dei personaggi. Alessandro rappresenta il precariato, e all’epoca era veramente importante incominciare a raccontare questo aspetto. Essere scelto per interpretare Alessandro in Boris è uno di quei regali che questo mestiere ti fa. Un mestiere con cui ti confronti costantemente, e spesso ti stupisci di cosa ha prodotto negli altri. Qualcuno mi ha detto “Mi hai salvato”, altri “Mi hai rovinato la vita perché mi chiamano tutti con i tuoi soprannomi” (Alessandro nella serie viene sempre chiamato dai capi in modi diversi, mai con il suo vero nome, ndr). Al netto di questo è bellissimo vedere che gli altri si rivedono nel tuo lavoro, è qualcosa che dà un’enorme soddisfazione».

Se molte cose in questi anni non sono cambiate, è però rilevante come la pandemia abbia rivoluzionato il mondo del lavoro, un aspetto che negli ultimi tempi riceve sempre più attenzione. Oggi i ragazzi sono più esigenti, e anche alla loro prima esperienza pretendono flessibilità, remote working, e in generale si richiede un equilibrio sempre maggiore tra lavoro e vita privata. Cosa ne pensi?

«Io sono assolutamente con i giovani che pretendono rispetto e salari dignitosi. Io non ho mai fatto lo stagista nella mia vita, ho sempre fatto l’attore, ma grazie a Boris ho avuto modo di toccare con mano alcune dinamiche che diversamente avrei percepito da semplice spettatore. Io sono con tutti i ragazzi che “fanno gruppo”, che ci tengono a sottolineare i propri diritti, e che si autosostengono dicendo: “Se rispettano i miei diritti, rispetteranno pure i tuoi”. È un discorso molto complesso, io non sono un sociologo, esprimo semplicemente la mia opinione: è importante fare sistema, perché ci aiutiamo tutti. Se c’è una speranza oggi la vedo proprio in chi, nelle nuove generazioni, si è stufato di essere trattato come il “servo del sistema”. Che i giovani prendano coscienza di questo è assolutamente un bene. E se Boris ha avuto anche solo una piccolissima parte di merito, meglio di così non poteva andare».

A proposito di vecchie generazioni e nuove generazioni, c’è una famosa battuta che tu dici in Generazione 1000 euro (Film di Massimo Venier del 2009, ndr): «Questa è l’unica epoca in cui i figli stanno peggio dei padri». Siamo sicuramente più sfortunati dei nostri genitori. Come la vedi?

«È vero, siamo sicuramente sfortunati rispetto ai nostri genitori, però abbiamo più armi e più coscienza. Io sono padre, ed è giusto dare anche nuovi valori. Tutti i problemi che la nostra generazione si è ritrovata ad affrontare hanno fatto sì che abbiamo acquisito più consapevolezza nel nostro essere cittadini, genitori e lavoratori».