I soliti buoni propositi per il nuovo anno

Ci troviamo in quel periodo dell’anno: il momento giusto per rielaborare la routine mattutina, quello per riorganizzare gli spazi in casa, lo stesso per rimettersi in forma e ripensare in generale a tutta la vita lavorativa e non. La fine dell’anno è quel periodo delle “ri-qualcosa”. Gli americani li chiamano New Year’s resolution, quei soliti buoni propositi per il nuovo anno, vittime il più delle volte di quella che in psicologia è nota come affective forecasting, la previsione affettiva. Per farla facile, è la capacità di sapere in anticipo rispetto ad alcune situazioni come ci si sentirà. Immaginare a inizio anno il buon proposito crea una sensazione di benessere. Poco tempo dopo invece, misurandosi con le difficoltà del percorso, ci si trova – il più delle volte – in uno stato di sconforto tale da far desistere le persone nel raggiungimento dell’obiettivo. Timothy Pychyl, psicologo canadese e fondatore del Procrastination Research Group, aiuta a capire il profilo del procrastinatore seriale: «Spesso diventiamo i peggiori nemici di noi stessi rimandando senza motivo e volontariamente alcune cose. Quando procrastiniamo i nostri obiettivi però, in pratica stiamo rimandando le nostre vite». Ed è esattamente quello che accade già con l’arrivo di febbraio, quando i buoni propositi sono già belli che dimenticati. Un vecchio studio condotto dall’Università di Bristol su oltre 3.000 persone evidenzia come, nonostante il 52% dei partecipanti fosse certo del proprio successo, ben l’88% di quei buoni propositi di inizio anno fallisce miseramente 

Porsi degli obiettivi però, al di là dell’(in)successo nella loro realizzazione, è sempre e comunque fondamentale, ancora di più dopo tre anni di pandemia dove i New Year’s resolution sono rivolti altrove. Ci siamo abituati infatti a scelte drastiche sulla scia della yolo economy, lavoratori che si battono per un miglior bilanciamento (e integrazione) tra work e life. Facciamo molta più attenzione al ritrovarsi e nel farlo cerchiamo sempre di ritagliarci i nostri spazi offline. Questi sono i nostri buoni propositi 

Lavorare meno, lavorare meglio. Giuro che quest’anno studierò una nuova lingua, sento il bisogno di rialfabetizzare il mio mondo. Essere più distaccata. No multitasking, sì multipotenziale. Abbracciare nuove sfide, non perdere mai di vista il senso delle cose che faccio e dire di no con gentilezza. Fare meno e meglio, cercare di essere pagato di più e fare più cose che mi piacciono o che sento vicine. Per il 2023 mi ripropongo di essere appassionata, focalizzata e ispirata quotidianamente dal mio lavoro, perseguendo una crescita equilibrata e sostenibile, che mi faccia sentire “proud to be in my shoes”. Sarebbe bellissimo riuscire a mettere ordine, sulle scrivanie, nei sogni, negli obiettivi e soprattutto nel rapporto tra vita e lavoro, per raggiungere l’ambitissimo work-life balance da tutti tanto agognato. Scrivere meno mail e più articoli di giornale. Lamentarmi meno e apprezzare di più il qui e ora. Usare meglio il mio tempo e lavorare su quante più cose belle possibile. Vorrei dedicarmi, come giornalista, a dei lavori capaci di cambiare un po’ le cose. Non parlo di grandi inchieste da film, mi basterebbe raccontare delle storie importanti, soprattutto sui temi della lotta alla crisi climatica e della transizione energetica. A livello personale, vorrei migliorare ancora di più il bilanciamento lavoro-vita privata, dicendo qualche “no” in più nelle varie collaborazioni senza rischiare conseguenze negative a livello professionale ed economico. Mi piacerebbe riuscire a portare a termine tanti obiettivi personali che si intrecciano all’ambito professionale. Primo fra tutti riuscire a sperimentare tante mansioni in ambienti anche diversi tra loro, per apprendere il più possibile e riuscire a delineare con più sicurezza un percorso su cui investire e che mi impegni nei prossimi anni. Tante novità, curiosità e anche divertimento. Accendere una luce per attirare l’attenzione su ciò che conta e mi riguarda. Il mio buon proposito lavorativo sul 2023 è, in primis, quello di continuare a maturare un pensiero critico sull’idea stessa di lavoro. Un esercizio necessario, a mio avviso, in un momento storico nel quale, anche i neologismi più invitanti (quite quitting), faticano a mettere realmente in discussione i principi della cultura lavorativa contemporanea. Il mio auspicio è quello di collaudare in modo equilibrato la mia routine lavorativa nella giusta armonia tra progetti creativi, approfondimento culturale, scrittura e noiose operatività. 1. Allontanare le narrative e le narrazioni dai luoghi comuni e dalle parole comuni. Che poi già narrativa e narrazioni sono ormai diventati dei luoghi comuni; 2. Contribuire quanto più possibile alla riduzione di quel rumore di fondo sempre più assordante fatto di continue mail, messaggi, telefonate, call, riunioni inutili eccetera. Applicando magari il modello della riunioni operativa lunga massimo 10 minuti, e indetta solo quando davvero serve e non può essere sostituita da un’email; 3. Applicare il vecchio adagio secondo cui un lavoro giornalistico non è un buon lavoro quando nessuno s’arrabbia. Per chi, come me, è entrato da poco nel mondo del lavoro, formulare buoni propositi risulta alquanto difficile: vi è infatti la tendenza ad accettare ogni circostanza, ogni condizione proposta, per il timore di perdere la famosa occasione della vita. Perché non pensare invece di coltivare queste occasioni, ricercandole attivamente e studiandole con attenzione? Saper selezionare, discernere e scegliere con consapevolezza la mia futura carriera: questo è ciò che mi auguro, lavorativamente parlando, per l’anno a venire. 

 

 

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