Secondo quanto riportato dall’ultimo studio Gallup sullo stato di soddisfazione globale dei lavoratori, gli italiani occupano le prime posizioni in classifica per preoccupazione, stress e tristezza in ufficio, mentre scivolano all’ultimo posto rispetto alla facilità con cui pensano di poter trovare un nuovo impiego e a quanto si sentono coinvolti sul posto di lavoro.
Il quadro che ne viene fuori è quello dunque di lavoratori perennemente insoddisfatti, che associano al lavoro emozioni negative e sono disillusi rispetto alla possibilità di cambiare la propria situazione. Ma allora perché siamo il popolo che cita il lavoro più spesso (44%) per rispondere alla domanda su cosa dia un senso alla vita?
È una domanda che ne richiama subito un’altra: può il senso della vita dipendere solo da un aspetto di questa? Improbabile. Infatti, ogni volta che mettiamo al centro della nostra vita una e una sola cosa, non solo ci perdiamo quanto di bello e variegato ha da offrire il mondo che ci circonda, ma ci mettiamo anche in una posizione molto pericolosa: cosa accadrebbe se quell’unica cosa non ci fosse più?
Il lavoro non fa eccezione. Già nel 2017 dalle pagine del The Guardian, lo studioso Yuval Noah Harari rifletteva sul senso della vita in un mondo senza lavoro, ovvero in un mondo dove tecnologia e progresso potrebbero rendere obsoleto e non ricollocabile un sostanzioso gruppo di lavoratori già nel 2050. E la pandemia era ancora di là da venire.
E allora il primo passo da compiere forse potrebbe essere quello di cercare il senso della vita, quella sensazione di pienezza e appagamento, in più posti, di vederlo come un puzzle composto da tanti pezzi, tutti ugualmente importanti per raggiungere il risultato finale.
Passiamo molto del nostro tempo a lavorare – fa parte della nostra quotidianità – per un tempo molto lungo della nostra vita. Va da sé quindi che provare sensazioni e sentimenti negativi associati al lavoro può provocare conseguenze psicofisiche non indifferenti. Abbiamo già visto i rischi del workaholism, ma non è questa l’unica patologia associata al lavoro. Ansia, depressione, insoddisfazione, stanchezza cronica, per citarne solo alcune, risucchiano il lavoratore infelice in un vortice che coinvolge tutti gli aspetti della sua vita.
Durante e dopo la pandemia in molti hanno deciso di cambiare radicalmente la propria situazione lavorativa. È nato così il fenomeno conosciuto come great resignation, per il quale in Italia, secondo fonti Istat, sarebbero già 8 milioni gli italiani che hanno lasciato il posto di lavoro. Adesso si assiste a un fenomeno più morbido, il quiet quitting, ovvero lasciare senza lasciare, staccarsi insomma dall’idea che bisogna sempre spingersi oltre, che bisogna dare e fare di più. Una strategia che, come tutte le strategie, può funzionare per alcuni, meno per altri, tanto da essere stata messa in dubbio dal suo stesso ideatore.
In realtà è il presupposto ad essere sbagliato: fermarsi oltre l’orario di lavoro, sottoporsi a ritmi frenetici, sacrificare parti sostanziose della vita privata, fare una call dopo l’altra, sono considerati la norma. Ma in realtà non lo sono affatto e anzi incidono pesantemente sia sulla salute del lavoratore, sia in generale sulla produttività dell’azienda. Se si partisse invece da un presupposto “sano” del concetto di lavoro, probabilmente ci sarebbero molte meno dimissioni e non si avrebbe alcun bisogno del quiet quitting.
I leader giocano decisamente un ruolo chiave rispetto alla soddisfazione dei dipendenti. Nel suo libro Il pessimo capo (Longanesi, 2021), Domitilla Ferrari racconta con ironia e saggezza di quei leader che ti rendono la vita difficile e che così facendo creano un danno all’intera azienda. Ci sono diversi profili, ma in generale, ci racconta la Ferrari, il pessimo capo è colui che non condivide, che non ascolta e che è rimasto ancorato a un’idea di efficienza sul lavoro che predilige il tempo (quanto tempo stai seduto alla scrivania, quanto ti fermi dopo l’orario di ufficio, quanto resti collegato, etc.) a discapito del risultato. Possiamo imparare a riconoscere questi pessimi capi, a decidere di non essere come loro e a difenderci pacificamente.
Non esiste un decalogo universale per essere lavoratori felici, ogni lavoro è diverso, ogni ufficio è diverso, un gruppo di colleghi è diverso da un altro e ogni individuo si contraddistingue per le sue specificità. E allora? Allora il modo migliore è costruirsi da soli il proprio decalogo a partire dai valori che ci contraddistinguono come persone, imparando a distaccarci e a dare al lavoro la giusta importanza inquadrandolo nella cornice più ampia della nostra vita. Il nostro valore come persone non dipende esclusivamente dal lavoro che facciamo, anzi, in molti casi non ne dipende affatto.